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di Alessandro Iacuelli

Tra il discorso di Berlusconi alla Camera, e le dichiarazioni dei ministri Tremoni e Scajola, emergono le idee e le intenzioni del nuovo governo in campo energetico. Prima di tutto non c'è la scelta dello sviluppo sostenibile. Sulle politiche energetiche ed ambientali non solo si è manifestata un'assoluta inadeguatezza ma si sono ascoltati indirizzi culturali ed economici sbagliati e dannosi. Non si è preso un impegno serio (obiettivi e proposte) per la riduzione della CO2 e non si sono riproposti gli obiettivi europei (meno 20% di CO2, più 20% di energia da fonti rinnovabili, più 20% di risparmio). Del resto, solo due anni fa, l'altro governo Berlusconi si era distinto per le sue inadempienze nel rispetto del trattato di Kyoto. In pratica, il programma di governo è alquanto indefinito e con indirizzi non all'altezza della situazione dell'Italia. In particolare, il nucleare di Berlusconi è una strada sbagliata, per la ricerca scientifica, le imprese, l'occupazione, le famiglie e l'ambiente Nel presentare il suo governo alle Camere Berlusconi ha dato sfoggio di numerose fallacie argomentative e falsità concettuali. Ad esempio, ha affermato che non c'è alcuna contrapposizione tra sviluppo e ambiente, come se il degrado ambientale non dipendesse dal modello di sviluppo, e in particolare da quel modello di sviluppo che mostra di voler continuare ad adottare. Il salto nel passato il premier lo fa invece riproponendo il nucleare come scelta "indispensabile" per soddisfare la domanda di energia. Anche qui, c'è più di una fallacia argomentativa. Sul terreno della tecnologia il discorso è semplice: il cosiddetto nucleare "sicuro", quello di quarta generazione, ancora non c'è. Il problema scorie non è risolto, continuano ad essere una pericolosa fonte di inquinamento radioattivo, e non si sa dove metterle.

Per l'Italia i costi sono alti e non competitivi. Certo, la ricerca scientifica è in azione, andrebbe aiutata con fiducia, ma per ora ci viene riproposto il vecchi modello nucleare, senza aiuti alla ricerca. Una scelta di ritorno al passato, quindi, che è e rimane un azzardo costoso, socialmente difficilmente gestibile e con tempi di realizzazione talmente lunghi da non essere affatto utili ad affrontare la crisi energetica. Ad essere sbagliata, infatti, è la strategia energetica che si propone per l'Italia. Con il costo del barile di petrolio alle stelle, urgono profondi cambiamenti per fuoriuscire dal petrolio e più in generale dalle fonti fossili.

Nel 1973, nella prima crisi petrolifera, l'alternativa al petrolio fu cercata nel nucleare. Oggi, nell'immediato, ci sono valide alternative come il gas e il risparmio energetico e, nel medio e lungo periodo, le fonti rinnovabili (fotovoltaico, eolico geotermia). L'Italia non ha più una base industriale né una tecnologia nucleare. La prima dovrebbe essere ricostruita e per fare una base industriale buona ci vogliono vari decenni; la seconda andrebbe importata dall'estero, con gravi costi e chissà quale contropartita per chi la fornirebbe. Con buona pace per chi sostiene che il nucleare ci renderebbe indipendenti dall'estero.

I costi preventivati dagli "esperti" pro nucleare sono altamente ottimistici. I sette anni dichiarati per la costruzione delle centrali non sono realistici. La centrale nucleare francese in costruzione in Finlandia è già in ritardo di 2 anni (con gravi costi supplementari) e non è ancora pronta. Circa i tempi/costi di realizzazione di un impianto di vecchia concezione, esiste un recente studio del MIT, dove si sostiene che i tempi effettivi di costruzione sono di 109 mesi, senza contare le autorizzazioni.

In un paese come l'Italia paralizzato da ritardi cronici, burocrazia, veti politici, interessi lobbistici, i tempi e quindi i costi sono destinati a gonfiarsi a dismisura. Tutto sarebbe ovviamente a spese del debito pubblico o del cittadino. Di argomenti a sostegno della difficoltà a percorrere il cammino del nucleare ce ne sarebbero ancora, primo tra tutti l'aumento esponenziale del costo dell'Uranio e del suo rapido esaurirsi, poichè è un materiale molto raro, più del petrolio.

Da altri studi, poi, è emerso che il costo di chiusura delle centrali nucleari da dismettere non è valutabile con precisione e rischia di essere molto più salato del previsto. Guardiamo allora cosa succede all'estero. La Francia, ad esempio, rinvia il problema dilatando il periodo di servizio da 30 a 40 anni e forse addirittura a 60 anni. Con un rischio per la sicurezza non calcolabile. Il fatto è che il rischio ricade sulla testa di chi si troverà lì tra 60 anni.

Insomma, la volontà governativa, introdotta da Berlusconi e apertamente dichiarata dal ministro Scajola, di riproporre le centrali nucleari sembra rispondere a una logica di centralizzazione del controllo energetico da parte della politica, ma con una privatizzazione selvaggia del mercato dell'energia come quella italiana, il vero potere sull'energia sarebbe ancora una volta nelle mani di investitori esteri.

Pertanto, in Italia, scegliere il ritorno al nucleare rappresenterebbe esattamente un modello pesante, con grandi imprese oligopolistiche, sicurezza non risolta, bollette più care per le famiglie, minore occupazione. Un modello che non è proprio indispensabile, anzi è una strada sbagliata.

Oggi, in Italia, unico paese d'Europa a stare su tali livelli, produciamo oltre il 60% dell'elettricità bruciando gas. Un combustibile molto costoso perché il suo prezzo è legato a quello del petrolio. Per di più, circa il 90% del gas di cui abbiamo bisogno viene importato. Proviene in gran parte da Russia e Algeria, attraverso due soli gasdotti. Circa metà del gas che consumiamo in Italia viene usato nelle centrali termoelettriche. È questa dipendenza da un solo combustibile che va ridotta, se vogliamo avvicinare i prezzi dell'energia elettrica italiana a quelli europei, diversificando le fonti attraverso il ricorso alle fonti rinnovabili, come avviene in tutto il mondo. Ci sarebbe quindi bisogno d’investimenti per diversificare le fonti sia geograficamente che per tecnologia.

L'industria italiana, da questo punto di vista, non è certo indietro rispetto ai tempi, basta pensare ad un piano messo a punto da Enel che prevede investimenti per 7,4 miliardi di euro fino al 2012. Di questi 6,8 miliardi di euro saranno destinati alla crescita nelle fonti rinnovabili, soprattutto l'eolico, mentre 600 milioni di euro sosterranno i progetti di ricerca, dall'idrogeno al solare termodinamico, Con questi investimenti programmati, Enel prevede di essere in grado di raggiungere una capacità di produzione con la forza dell'acqua, del sole e del vento che dagli attuali 3.112 Megawatt passi a 7.382 Megawatt in quattro anni. Peccato che nel frattempo la politica abbia scelto una strada diametralmente opposta.