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di Mario Braconi

In un momento di frenesia da shopping, potrei aver comprato un paio di Timberland e, già che c'ero, la borsa di Prada che mia moglie desiderava da tempo; stanco di girare per negozi, potrei essermi fermato a mangiare un cheeseburger al fast food. Non solo avrei sperperato una quantità di denaro tale da costringermi a renderne conto alla mia coscienza (e maltrattato il mio stomaco): secondo un corposo rapporto pubblicato da Greenpeace a giugno, potrei essere diventato inconsapevolmente complice di peccati ben più gravi: il vilipendio dei diritti umani e la distruzione della foresta amazzonica. Allevare animali per poi farli fuori è indubitabilmente un business molto redditizio: se ne ricava, ovviamente, la carne che, una volta trattata ed inscatolata, finisce sugli scaffali dei nostri supermercati, ma anche il pellame con cui si confezionano le nostre calzature (eleganti e sportive); il grasso, ingrediente essenziale di prodotti per l’igiene personale e la bellezza (dentifrici e creme per il viso); ossa, intestini e legamenti, ovvero gelatina per scopi alimentari (serve ad esempio ad ispessire lo yogurt e a fabbricare le caramelle morbide).

Molte imprese, grandi multinazionali private come enti pubblici di vari paesi, hanno una gran “fame” di pellame e il Brasile è l'Eldorado dei loro fornitori. Infatti, deforestando selvaggiamente l'Amazzonia, è possibile ricavare in modo semplice milioni di ettari di terreno da adibire velocemente a pascolo: in effetti, basta abbattere (o incendiare) qualche migliaio di alberi, seminare per poi installare un bel ranch (si stima che, nel Paese dell'Ordine e Progresso, dal 1976 al 2008 il numero di animali da allevamento sia passato da 21 milioni a 74 milioni). Ma la natura si ribella alla violenza predatrice dell'uomo: nel giro di qualche anno, il terreno deforestato viene nuovamente invaso dalla vegetazione locale, inadatta al pascolo: niente paura, i nostri bravi allevatori non si scoraggiano, e, semplicemente, si danno alla devastazione della foresta amazzonica circostante.

E avanti così, distruggendo allegramente il nostro domani. E poco importa a questi brillanti imprenditori se, secondo le stime degli ambientalisti, la deforestazione finalizzata all’allevamento è responsabile del 17% dell’effetto serra (tanto per capirsi, più di tutto il sistema dei trasporti globale); e se in 30 anni se ne è andato in fumo un quinto della foresta amazzonica.

Certo, il Governo fa qualche ispezione, ma nel complesso, come dice Andre Muggiati, attivista di Greenpeace Brazil, residente a Manaus, “c’è una totale deregolamentazione e molte persone si comportano come se le leggi a loro non si applicassero. Un po’ come nel selvaggio West”. Il danno ambientale prodotto da questi eco-criminali è enorme, ma purtroppo non è il solo: Greenpeace ha messo insieme una serie di dati (pubblici), che raccontano una storia esecrabile di uomini e donne ridotti in schiavitù, mentre la lotta per la terra produce vere e proprie guerre a bassa intensità.

Non mancano i casi di popolazioni indigene che, esasperate dall’atteggiamento predatorio e dalla violenza usurpatrice degli allevatori, ricorrono alla violenza. Sostiene Itanya, un capo villaggio, citato dal Guardian: “Da quando sono arrivati gli invasori, abbiamo avuto molti problemi. E’ più difficile reperire il cibo, e la rabbia monta. Se il governo non trova una soluzione, ci penseremo noi. Sappiamo come preparare frecce avvelenate e siamo pronti ad uccidere”. (proclama agghiacciante ma purtroppo non velleitario: nel 2003 sono stati trovati i cadaveri di tre fattori, tutti a poca distanza dal villaggio)

Per raccontare questa incredibile storia, a giugno il Guardian si è unito agli attivisti di Greenpeace per un sopralluogo sotto mentite spoglie nella zona attorno a Maraba, nel cuore della regione amazzonica. A Maraba si trova un macello di proprietà della società brasiliana Bertin, primo esportatore di cuoio e secondo di carne bovina del Paese. La Bertin ha sempre sostenuto di non acquistare animali da allevatori coinvolti nella deforestazione; non solo, dichiara di aver tagliato fuori 138 fornitori per “irregolarità”. Eppure, le carte scovate da Greenpeace parlano chiaro: è provato che in due occasioni il colosso della carne brasiliano ha acquistato complessivamente circa 450 bovini dal ranch dall’evocativo nome di Espiritu Santo, una gigantesca fazenda, dotata di ogni comfort, piscina compresa.

Quei ficcanaso di Greenpeace hanno sorvolato Espiritu Santo a bordo del loro aereo e, incrociando i loro calcoli con l'osservazione diretta e con i dati del GPS, sono arrivati alla conclusione che solo una percentuale tra il 20 e il 30% del territorio è effettivamente ancora occupata da foresta. Eppure la legge brasiliana stabilisce l'80% del territorio entro i confini di ogni ranch che dovrebbe essere mantenuto a foresta. Espiritu Santo se ne infischia delle leggi ambientali, e non solo di queste, se è vero che le persone che occupano abusivamente i ranch vengono regolarmente attaccate dalla “sicurezza” a colpi di arma da fuoco (Greenpeace ha raccolto testimonianze di almeno quattro ferimenti). E il brutto è che, secondo Greenpeace, l’Amazzonia è disseminata di decine e decine di ranch come Espiritu Santo.

Inoltre, sempre secondo l’associazione ambientalista, gli allevatori più spregiudicati “riciclano” il bestiame allevato in condizioni d’illegalità, facendolo transitare per impianti “puliti”, cosa che rende impossibile tracciare quale sia il “prodotto” realizzato in modo sostenibile (o per lo meno legale). Nel suo rapporto, Greenpeace prova che i tre principali produttori di carne e pellame brasiliani si sono riforniti (anche) da allevatori invischiati nello schiavismo: Bertin e JSB hanno comprato animali da Paiva Abreu, a suo tempo arrestato per episodi di schiavismo riscontrati nel suo allevamento a Santa Terezinha. Nel 2008 il macello della Bertin situato a Maraba ha acquistato bestiame dall’allevamento Colorado di proprietà di Roque Quagliato, incriminato per aver schiavizzato 81 persone; lo stabilimento della Marfrig a Tangarà da Serra acquista bestiame dall’allevamento di Antenor Duarte do Valle, il quale figura in una lista nera del governo brasiliano con la terribile accusa di aver trasformato in schiavi 188 persone.

Incoraggiata dal successo della una campagna di sensibilizzazione del 2006 sulla soia prodotta in Brasile grazie alla deforestazione, a giugno Greenpeace, con la pubblicazione di un report esplosivo, ha messo sotto pressione i produttori di alimenti a base di carne bovina e di pelletterie: sono moltissime, infatti le aziende note coinvolte nello sfruttamento abusivo e criminale dell’Amazzonia: Kraft (proprietaria del marchio Simmenthal), Cremonini (tra l’altro controllato al 50% da JBS, altro big della produzione di carne in Brasile) e fornitore delle Ferrovie dello Stato e di quelle francesi, Rino Mastrotto Group (RMG) e Gruppo Mastrotto (GM), clienti di Bertin e fornitori di marchi di lusso come Hilfiger, Louis Vuitton e Prada.

Benché tra le aziende “complici” della deforestazione dell’Amazzonia il rapporto Greenpeace citi anche Gucci, un comunicato della Casa del 5 giugno nega ogni addebito: “Siamo in grado di confermare che il tutto il pellame utilizzato da “Gucci Group” proviene da Paesi europei” si legge nella nota; non solo: “i nostri prodotti non contengono pelle bovina ricavata da allevamenti brasiliani”.

Anche questa volta gli spavaldi guerrieri dell'arcobaleno hanno fatto centro: tre marchi importanti del settore delle calzature, Clarks, Adidas e Timberland, hanno imposto ai propri fornitori una moratoria alla deforestazione. L’iniziativa prevede che esse non acquisteranno cuoio prodotto da fattorie che sorgono su territorio deforestato, in modo legale o meno. Se non verrà organizzato un processo di tracciabilità della provenienza delle materie prime sufficientemente credibile, la moratoria verrà estesa per un ulteriore periodo.

C’è da sperare che alla pressione di Greenpeace si aggiunga quella dei consumatori che (magari) potrebbero iniziare a non comprare prodotti che non siano realizzati in modo chiaramente legale e sostenibile. E che possibilmente cessi la schizofrenia del governo brasiliano, che da un lato si impegna a ridurre la deforestazione amazzonica del 72% nel 2016 e, dall’altro, ha ben 2,65 miliardi di dollari investiti nel business della carne e del pellame, mentre produce provvedimenti che “legalizzano” gli abusi già perpetrati dai rancheros. O anche la schizofrenia della Banca Mondiale: indovinate infatti chi ha finanziato con 9 milioni di dollari la ristrutturazione del macello di Maraba di cui sopra? La International Finance Corporation, controllata dalla Banca Mondiale.

Né i signori della IFC potranno dire di non sapere quello che stavano facendo: come riporta The Independent, uno studio commissionato dalla stessa stessa IFC, aveva chiarito che il rafforzamento di quell'impianto della Bertin avrebbe prodotto la perdita di 300.000 ettari di foresta. Eppure l'allora direttore di IFC, Robert Zoellick, sbrodolava ai giornali: "Il valore è oggi conservare, non solo sfruttare la foresta".