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di Liliana Adamo

Ad accompagnare le esternazioni del segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon e l’appello accorato nel lungo discorso del presidente americano, Barak Obama, l’incontro al vertice dell’Onu sul clima, appena svoltosi a New York, ha avuto sullo sfondo l’ennesimo, apocalittico scenario meteorologico: la tempesta di polvere ocra che ha reso il cielo acceso d’arancione offuscando letteralmente tutta la cosa est australiana.

Mentre il caos e un’atmosfera da quieta Armageddon regnavano a Sidney, altre città sono state messe a dura prova: Adelaide ha subito piogge torrenziali fra le più violente degli ultimi anni, Melbourne è stata letteralmente sommersa da grani di grandine, grossi come palle da baseball, così come tutte le zone del South Wales. Questo, giusto per riferire di uno strano parallelismo.

E se nel frattempo, sulle coste australiane gli esperti si aspettano un’altra tempesta simile fra un paio di settimane, il countdown per il clima è già scattato. Di fatto, durante il summit conclusivo che si terrà a Copenaghen, nel mese di dicembre, più d’ogni altro aspetto si discuterà delle improrogabili regole comuni, vanificate da tempo, a limitare i danni causati dal global warming. Intanto, notizia d’ultima ora, la replica “picche” da parte della Commissione UE al governo italiano, che intendeva “rinegoziare” il tetto per le emissioni di CO2 nell’atmosfera.

Vale a dire, come il nostro paese, al cospetto della legislazione comunitaria, assuma sempre toni autoreferenziali, del tutto incompatibili ai proclami dell’aprile scorso a Siracusa, durante il vertice del G8 sul clima, quando, in un rapporto firmato dal Ministro dell’Ambiente, sig.ra Prestigiacomo, si confidava in un “impegno costruttivo di tutti perché il bene-ambiente è “globale” per eccellenza e le soluzioni, le decisioni, le scelte per essere valide e produttive di effetti positivi non possono che essere condivise”. A evidenziare, ancora, che fra il dire e il fare…

Nelle sue dichiarazioni pubbliche all’assemblea dell’ONU, il segretario generale Ban Ki Moon appare come un uomo piuttosto schivo e ragionevolmente moderato, conosciuto per la sua riservatezza e la sua abilità diplomatica, ma l’impeto con il quale ha affrontato il discorso sui cambiamenti climatici non sorprende quasi quanto la sua crescente frustrazione dovuta alla cronica mancanza d’obiettivi comuni tra le potenze internazionali. Parlando ai leader del mondo, il suo monito è stato lapidario: “L’omissione di raggiungere un accordo esauriente a Copenaghen, sarebbe moralmente ingiustificabile, economicamente miope e politicamente colpevole”.

Perché i governi hanno cominciato a dare i primi modesti segnali senza però muoversi verso un obiettivo comune e il discorso calza per i paesi evoluti ma anche per quelli in via di sviluppo, le cui economie richiedono un ulteriore sfruttamento delle risorse esistenti. C’è bisogno di una seria inversione di tendenza.

Ora, la Cina è disposta a ridurre il suo inquinamento entro il 2020, senza precisare come e di quanto, il Giappone è risoluto nel riaffermare il suo ambizioso piano, riducendo drasticamente le sue emissioni e rendendosi disponibile ai paesi in via di sviluppo, offrendo nuove tecnologie verdi cui sta approntando, migliorarne le condizioni economiche di base, senza devastazioni ambientali. Ottimo proposito, peccato che il governo nipponico non abbia presentato un solo dato realistico per attuarlo.

La Francia, addirittura, aspirerebbe a una leadership mondiale per la supervisione e il controllo alle nuove politiche verdi. Gli Stati Uniti si sono impegnati a trovare una soluzione e, per la prima volta, grazie alla lungimiranza del suo nuovo presidente, accettano pienamente le proprie colpe per l’escalation del riscaldamento globale. Ma non c’è più tempo neanche per le recriminazioni, il countdown scorre inesorabile verso il nuovo summit di Copenaghen e, senza impegni concreti, si rischia il solito teatrino di parole vuote, in attesa del futuro.