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di mazzetta

Dieci anni dopo Seattle tocca a Copenhagen offrire il confronto simbolico tra il potere rappresentato dai governi e la coscienza globale incarnata da movimenti e associazioni di base. Allora si cercava di definire le regole del commercio globale, oggi i capi di stato e i rappresentanti dei grandi interessi economici s'incontrano per contrastare il riscaldamento globale. Ora, come allora, nelle sacre stanze del vertice saranno rappresentati interessi molto particolari, mentre fuori dal perimetro riservato agli invitati s'incontreranno gli interessi e le idee di popoli e persone che non hanno voce in capitolo dove si decide.

Gli schieramenti iniziali sono abbastanza delineati. Si parte da una base che riconosce l'aumento troppo veloce della temperatura e che ne riconduce la causa alle attività antropiche, in particolare alle emissioni di Co2. A respingere la base di discussione comune restano frange di fanatismo, a destra come a sinistra, impersonate da lunatici che giurano che il riscaldamento globale sia solo un grande complotto, cambiano solo i beneficiari del complotto a seconda dei proponenti, ma lo schema è comune: qualcuno si è inventato tutto per guadagnarci.

Anche i rappresentanti dei grandi interessi economici hanno ormai abbandonato il negazionismo spicciolo e intrapreso strade alternative. I più creativi sono i petrolieri e con loro chi guadagna dall'impiego di combustibili fossili, che da anni ormai producono benzina “verde”, gasolio “bianco” e altre diavolerie che sono solo travestimenti dei prodotti accusati d'inquinare. La nuova frontiera comprende il carbone “pulito” (che non esiste) e la promozione di qualsiasi strategia che non comporti la riduzione dell'impiego di fonti energetiche fossili.

In questo senso si propongono soluzioni fantascientifiche, che vanno dai grandi progetti di geo-ingegneria (“ombrelli” in orbita a schermare i raggi solari, “concimazione” degli oceani per aumentare la fotosintesi delle alghe e altro ancora sempre su scala planetaria) fino a soluzioni più modeste che dovrebbero servire ad azzerare le emissioni o quasi, come l'ormai mitico “sequestro” sotterraneo dell'anidride carbonica prodotta dalla combustione. Mitico perché ancora deve essere realizzato un solo impianto e anche perché costi e rischi dell'ideona sono ancora da indagare.

Un altro escamotage è quello architettato dall'ex enfant prodige del negazionismo climatico, quel Lomborg che ha commissionato, insieme all'italiana ENI, una ricerca che afferma che i soldi resi nell'aggiustare i danni prodotti dai cambiamenti climatici, renderanno sicuramente di più di quelli spesi per limitare le emissioni.

Un dato interessante, soprattutto per la grande finanza internazionale che vorrebbe risolvere il tutto affidando il problema al mercato, attraverso l'istituzione di una borsa per il commercio dei diritti ad inquinare. Un sistema assurdo: prima di tutto perché non garantisce alcuna riduzione delle emissioni e, secondariamente, perché assicura vantaggi e guadagni solo alle istituzioni finanziarie chiamate a gestire il commercio. I fan del carbon trade a Copenaghen non sembrano sensibili all'ideona di Lomborg, che comporterebbe lo stanziamento di fondi per spostare e proteggere le città rivierasche e altre attività di mitigazione.

Poi ci sono i governi, che nonostante la posta in gioco, procedono in ordine sparso e senza troppe idee; c'è da credere che la maggior parte firmerebbe subito qualunque accordo permetta di lasciare le cose come stanno. Su posizioni diverse solo i leader ininfluenti di un paio di micro-paesi che stanno per finire sommersi. Obama non suggerirà rivouzioni, l'Europa non aggregherà consenso e il BRIC andrà in ordine sparso, con la Cina che forse è il paese più incline e pronto a tagli drastici, l'India in cerca d'autore e il Brasile che è paralizzato dalla sua dipendenza dall'etanolo e da uno sviluppo ruggente, ma fondato sullo sfruttamento delle ricchezze  naturali del paese.

Attorno a questo circo, che ha costretto la Danimarca ad importare limousine per servire i delegati, ci saranno migliaia di persone che fino al 18 (hanno iniziato l’11) daranno vita al vertice alternativo sotto l'ombrello della CJA (Climate Justice Action) la sigla che fin dal titolo chiarisce come le soluzioni siano necessariamente da ricercare nell'implementazione della giustizia sociale, dello scambio equo tra mondo sviluppato e paesi in via di sviluppo, da regole stringenti per il commercio e lo sfruttamento del territorio. Una settimana che servirà soprattutto ad incontrarsi e a mettere a confronto micro e macro-soluzioni da coagulare in un documento d'analisi e d'indirizzo per il futuro.A salutare l'arrivo dei manifestanti la democratica Danimarca ha passato una simpatica legge che permette l'arresto preventivo dei sospettabili di voler provocare disordini.

Dieci anni dopo Seattle le previsioni di chi sedeva fuori dal vertice si sono rivelate puntuali. I sostenitori della deregulation e i fanatici del libero mercato hanno fallito, la crisi sistemica è scoppiata e ancora oggi il mondo della finanza e del commercio trattiene il fiato perché sa che i “salvataggi” sono stati pura cosmesi e il baratro dei debiti nascosti nei bilanci è ancora lì sulla strada dell'economia mondiale. Il turbo-capitalismo è fallito al punto che l'economia mondiale è stata salvata dalla Cina comunista, che oggi è allo stesso tempo fabbrica-mondo e forziere del debito pubblico americano basterebbe questo a destituire di ogni autorevolezza quelli che ora come allora, sono chiamati ad affrontare problemi sui quali hanno costruito le loro fortune.

Al vertice di Copenaghen non saranno presentate soluzioni innovative e il massimo che è lecito attendersi è qualche impegno su base nazionale alla riduzione delle emissioni e qualche elemosina ai paesi più colpiti dal clima imbizzarrito. Il risultato più probabile e atteso è quello di un documento che impegni i firmatari ad accordi futuri, non esattamente quello che sarebbe lecito attendersi dai capi di Stato riuniti al capezzale del pianeta. Si procede in ordine sparso e se Germania e Cina si segnalano per gli investimenti nelle energie rinnovabili, ci sono paesi come l'Italia nei quali la classe politica non è riuscita a pensare niente di più “pulito” della costruzione di centrali nucleari (già vecchie) e centrali termiche.

Come al solito tutti cercheranno di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite, che in questo caso sono i danni all'ambiente e alle popolazioni colpite dalle bizze del clima o quantomeno di pervenire ad accordi che non mettano a rischio lo status quo dell'economia globale, unico vero totem intoccabile anche ora che la crisi ne ha dimostrato i limiti  l'elevata pericolosità. Il mito della “crescita” si è rivelato effimero, ma ancora il requisito fondamentale di qualsiasi accordo è che si favorisca proprio quella “crescita” che nel decennio passato ha visto sacrificato sul suo altare ogni ipotesi di sviluppo diverso.

La soluzione empiricamente più soddisfacente, quella di ridurre drasticamente tutte le emissioni, non solo quelle di Co2 e non solo quelle in atmosfera, non è in agenda e l'aver limitato la questione alla Co2 è sicuramente il maggior successo registrato dalle grandi concentrazioni economiche. Le soluzioni praticabili esistono, ma come sempre non esiste il consenso necessario ad adottarle e ogni trattativa è destinata ad infrangersi contro robusti interessi particolari.

Perché la cultura di quelli riuniti a Copenaghen è la stessa di quelli che progettavano disastri a Seattle e perché la definizione del senso, i media e le carriere politiche sono ancora e forse più d'allora, condizionati dalla forza delle grandi corporation e delle grandi concentrazioni finanziarie. Non aspettatevi nulla dal vertice di Copenaghen.