Stampa

di Mario Braconi

"Siamo pronti ad accettare l'aiuto di chicchessia". Con queste disperate parole Doug Suttles, Chief Operating Officer Produzione ed Estrazione della British Petroleum, ha certificato ufficialmente l'impotenza sua e dell'azienda per la quale lavora di fronte al disastro ecologico che si sta consumando circa 40 miglia al largo della costa della Louisiana dallo scorso 20 aprile, quando la Deepwater Horizon, una piattaforma petrolifera gestita dal colosso britannico, si è inabissata dopo un'esplosione che ha provocato la morte di 11 addetti (le altre 115 persone che vi lavoravano sono state evacuate in sicurezza). Ed in effetti, scorrendo dati notizie dichiarazioni sulla Marea Nera che sta minacciando gli Stati Uniti, viene fuori in quadro assai poco rassicurante in cui dominano il cinismo e l'impreparazione delle società petrolifere come della classe politica che dovrebbe teoricamente tenerle a bada.

Soffermiamoci brevemente sulle misure di prevenzione. Tutte le piattaforme offshore sono dotate di almeno due sistemi concepiti per evitare che un incidente provochi dispersioni di greggio nel mare: il primo viene definito "controllo primario" e può essere attivato manualmente in caso di problemi; il secondo, detto dead man (uomo morto), è progettato per interrompere automaticamente il flusso di petrolio dal pozzo verso la superficie quando, per una qualsiasi ragione, si verifichi una soluzione di continuità nel tubo che collega il giacimento alla piattaforma. Esiste però un terzo dispositivo, il cosiddetto "interruttore acustico", piazzato su una nave a poca distanza dalla piattaforma, in grado di attivare la mega valvola di protezione attraverso comunicazione di impulsi nell'acqua. Cosa che lo dovrebbe rendere efficace anche nel caso in cui i cavi elettrici che costituiscono il sistema nervoso degli altri due sistemi dovessero essere danneggiati nell'incidente.

Alla Deepwater Horizon non hanno funzionato né il primo né il secondo dispositivo, forse perché i lavoratori morti nell'incidente non hanno avuto il tempo di attivare il controllo primario e/o qualche problema ha impedito che scattasse la sicurezza detta dead man. La piattaforma comunque non era dotata dell' "interruttore acustico", poiché negli Stati Uniti la sua installazione non è obbligatoria per legge, a differenza di quanto accade in Brasile, che, per amara ironia, lo ha reso obbligatorio dal 2007, a seguito di un incendio su una piattaforma che aveva provocato (anche il quel caso) undici vittime, e in Norvegia.

Anche se Inger Anda, portavoce dell'autorità norvegese per la Sicurezza petrolifera, sentito dal Wall Street Journal, ha dichiarato che esso costituisce la soluzione più efficace contro le conseguenze ambientali di incidenti simili a quello accaduto alla Deepwater Horizon, gli USA lo hanno sempre considerato con sufficienza quando non con ostilità. A tal proposito, non stupiscono particolarmente le conclusioni di rapporto che l'Associazione dei Contractors Estrattivi ha stilato nel 2001, secondo cui vi sarebbero "molti dubbi sulla capacità di questo sistema di fornire un controllo di secondo livello in caso di esplosione di un pozzo".

E’ invece un tantino più preoccupante l'efficacia con la quale la lobby petrolifera è riuscita a "convincere" il Governo USA a non rendere obbligatorio l'interruttore acustico negli USA: parla chiaro un report preparato nel 2003 dalla Minerals Management Service, un ufficio del Ministero degli Interni, che "non raccomanda l'uso degli interruttori acustici, in quanto esso tende a diventare molto costoso". A chi è abituato a pensare che alle aziende tocchi perseguire il profitto e agli Stati il bene comune, può sembrare strana la solerzia con cui il governo si preoccupa dei costi  privati di un dispositivo che può aiutare a salvare vite umane e ad evitare l'autodistruzione del pianeta, ma a quanto pare i tempi sono maturi per nuovi paradigmi.

Dunque, oggi ci troviamo ad affrontare una catastrofe ecologica paragonabile solo al disastro provocato dalla Exxon Valdez anche perché la British Petroleum ha voluto risparmiare una somma di 500.000 dollari (questo il costo di un interruttore acustico). Un risparmio poco lungimirante, anche a voler considerare la cosa esclusivamente dal punto di vista finanziario: l'incidente alla Deepwater Horizon, infatti, sta costando alla compagnia petrolifera britannica tra i 3 e i 6 milioni al giorno in interventi diretti ad arginare la marea nera (il ripristino della piattaforma affondata dovrebbe costare oltre 350 milioni di dollari).

Anche se British Petroleum cercherà di difendersi addebitando almeno una parte delle sue responsabilità nell'accaduto alla società svizzera Transocean Ltd., proprietaria della piattaforma, l'incidente mette in luce la sua leggerezza ed irresponsabilità: subito dopo il sinistro, la società ha mantenuto un atteggiamento relativamente tranquillizzante, lasciando intendere che al dramma umano non sarebbe seguita la catastrofe ambientale.

Con il passare dei giorni, però, è diventato impossibile nascondere la "cruda" verità: "stranamente", quando ai tecnici della BP si è unita la Guardia Costiera americana, la cifra di 1.000 barili al giorno dispersi nel mare è stata quintuplicata. A quel punto è stato chiaro che, a dispetto della cortina fumogena elevata dall' investor relation di BP per tenere sotto controllo il nervosismo delle sale cambi, pronte a vendere il titolo, il danno ambientale è incalcolabile. Finora sono state disperse nell'oceano 76.000 tonnellate di greggio e BP ha dovuto ammettere di avere immense difficoltà a chiudere la valvola all'imboccatura del pozzo.

Le operazioni necessarie a sigillarlo definitivamente, anche alleggerendo la pressione con un nuovo pozzo da costruirsi immediatamente nelle vicinanze, richiederanno la bellezza di tre mesi. Per avere un'idea della gravità della situazione, già alla terza settimana di giugno (un mese prima della presunta data della messa in sicurezza dell'impianto) Deepwater Horizon potrebbe aver gettato nell’Oceano 260.000 tonnellate di greggio, l'attuale, macabro record del disastro ambientale, la cui palma attualmente spetta alla Exxon Valdez (1989).

A parte l'immane danno ambientale, per contenere il quale le notevoli risorse messe in campo dalla BP e dal Governo americano rischiano di avere effetti modesti, il caso Deepwater Horizon avrà importanti conseguenze politiche: affinché il Senato approvi il piano sul cambiamento climatico che prevede l'obbligo ai produttori di energia elettrica di ridurre le loro emissioni di CO2 attraverso una struttura di "cap & trade" (limiti alle emissioni con meccanismo di compensazione tra diversi operatori), Obama ha bisogno del sostegno dei Repubblicani, i quali come contropartita hanno chiesto (e finora ottenuto) un via libera del Presidente all'attivazione di nuove piattaforme petrolifere al largo della Virginia e della Florida. E' ovvio che la tragedia del 20 aprile cambierà l'atteggiamento di Obama su possibili nuove installazioni, cosa che mette a rischio il grande new deal verde sognato dal Presidente. Solo la storia confermerà se siano fondati o meno i sospetti su quella che, ai dietrologi più impenitenti, sembra una coincidenza davvero curiosa.