Stampa

di Michele Paris

Mentre l’amministratore delegato della BP, Tony Hayward, stava volando negli Emirati Arabi per raccogliere denaro, in vista delle crescenti spese per le operazioni di contenimento della disastrosa fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico, la pubblicazione di un’indagine giornalistica negli USA ha aggiunto un altro capitolo alla storia dell’irresponsabilità delle corporation del petrolio, tra cui la stessa multinazionale britannica.

Una ricerca condotta dall’Associated Press ha rivelato infatti la presenza di migliaia di pozzi petroliferi abbandonati sul fondo del Golfo del Messico, molti dei quali rischiano di cedere e di provocare un nuovo disastro ambientale, a causa della scarsa manutenzione e della carenza di ispezioni da parte degli organi federali di controllo.

Le trivellazioni nelle acque federali del Golfo del Messico hanno riguardato finora circa 50mila pozzi, oltre la metà dei quali (27 mila), secondo l’agenzia di stampa statunitense, non più produttivi. Di questi, 23.500 vengono catalogati come pozzi permanentemente chiusi., 3.500 risultano invece temporaneamente abbandonati. Un migliaio non vengono trivellati da oltre un decennio. I più datati sono in disuso almeno dagli anni Quaranta del secolo scorso.

Quando un pozzo viene definitivamente abbandonato dalla compagnia che ne detiene i diritti di estrazione, si attiva una procedura che permette di sigillarlo in maniera relativamente sicura, anche se piuttosto costosa. Proprio per evitare di sostenere le spese elevate di chiusura dei pozzi, spesso le compagnie petrolifere decidono di dichiararli “temporaneamente abbandonati”, così da poter ricorrere a procedure più economiche, ma che non garantiscono dall’eventualità di fuoriuscite di petrolio.

In questi casi, oltretutto, le autorità federali preposte si limitano a richiedere una dichiarazione annuale nella quale l’azienda estrattrice esprime la propria intenzione di tornare a sfruttare il pozzo oppure s’impegna a sigillarlo in maniera definitiva in un futuro imprecisato. Grazie a questo espediente, le compagnie lasciano migliaia di pozzi in uno stato di pericoloso abbandono per anni, trasformando il Golfo del Messico, secondo le parole usate dalla stessa Associated Press, in un vero e proprio “campo minato”.

Le corporation del settore energetico abbandonano le operazioni off-shore per svariati motivi: quando un pozzo non è più in grado di generare i profitti sperati, oppure nel caso in cui il quantitativo di petrolio in esso conservato non corrisponde a quello delle stime preventive. In alcuni casi, i pozzi possono essere anche temporaneamente chiusi in attesa di un’impennata del prezzo del petrolio.

Abbandonate a grandi profondità, le strutture costruite per sigillare i pozzi col passare degli anni sono soggette a deterioramento e all’azione della pressione sottomarina. Se le operazioni di chiusura dei pozzi non avvengono in maniera sufficientemente corretta, le probabilità di fuoriuscite sono molto alte e possono presentarsi sia sottoforma di graduale rilascio di greggio che d’improvvise e rovinose esplosioni.

Nonostante i pericoli e le documentate violazioni delle regole da parte delle compagnie, le verifiche governative dei pozzi abbandonati sono pressoché inesistenti, così come irrisori appaiono i provvedimenti punitivi. L’indagine della Associated Press ha calcolato che tra il 2003 e il 2007 l’agenzia federale addetta ai controlli (Minerals Management Service, MMS) ha emesso sanzioni pari appena a 440 mila dollari per operazioni di chiusura dei pozzi definite “improprie”.

L’assenza di garanzie di sicurezza nel sigillare i pozzi abbandonati è d’altra parte estremamente diffusa. Nelle acque appartenenti a Texas e California, ad esempio, le autorità statali negli ultimi decenni sono state in grado di intervenire e mettere in sicurezza decine di migliaia di pozzi in condizioni pericolose. A livello federale, al contrario, l’MMS non si è dimostrato altrettanto zelante, anche a causa delle accertate collusioni con l’industria petrolifera le cui azioni era incaricato di sorvegliare.

Sempre da quanto si è appreso dalla ricerca dell’Associated Press, poi, a Washington si è più volte deciso di sorvolare sui segnali che da più parti erano giunti circa le condizioni dei pozzi abbandonati nel Golfo del Messico. Già nel 1989 il Government Accountability Office (GAO) - una sorta di Corte dei Conti americana - aveva condotto un check-up dei giacimenti petroliferi e di gas naturale del paese, scoprendo che circa il 17% di essi risultava sigillato in maniera impropria.

Lo stesso organismo, nel 1994, mise in guardia da possibili “disastri ambientali”, causati da fuoriuscite di greggio dai pozzi off-shore non più sfruttati, chiedendo ispezioni che non vennero però effettuate. Ugualmente nel vuoto caddero anche gli avvertimenti lanciati nel 2001 dallo stesso MMS relativamente al Golfo del Messico, così come quelli più recenti dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA), nel 2006.

Dei 27 mila pozzi abbandonati al largo delle coste al sud degli Stati Uniti, 600 erano sfruttati dalla BP, il cui livello di scrupolo per le procedure di sicurezza si è potuto osservare il 20 aprile scorso, in seguito all’esplosione avvenuta al di sotto della piattaforma Deepwater Horizon. Da allora si sono tristemente moltiplicati i resoconti presenti e passati del comportamento di queste enormi compagnie multinazionali, che pongono il perseguimento del profitto prima di qualsiasi considerazione relativa al rispetto dell’ambiente e della vita delle persone.

Un comportamento che, nel Golfo del Messico come altrove, minaccia di provocare nuove catastrofi che andrebbero drammaticamente ad aggiungersi a quello che è già stato definito come il più grave disastro ambientale della storia e la cui entità è ancora tutta da valutare.