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di Vincenzo Maddaloni

I ribelli che hanno conquistato Goma, la principale città del Kivu settentrionale, una delle province orientali - la più ricca di minerali - della Repubblica del Congo (DRC), si chiamano gli M23. Il loro piano è di marciare fino a Bukavu, la principale città del Kivu meridionale, ultima tappa dalla quale lanciarsi alla conquista di Kinshasa, la capitale del Paese. ll controllo di Goma prima e quello di Bukavu dopo, assieme alla marcia attraverso tutto il paese fino alla capitale rientra in una strategia già collaudata. La prima volta nel 1996. I ribelli che allora si chiamavano l’AFDL (Alliance of Democratic Forces for the Liberation of Congo - Alleanza di forze democratiche per la liberazione del Congo) spodestarono Mobutu Sese Seko che da 32 anni era il capo indiscusso di un regime di rapina e di corruzione.

La stessa tattica fu ripetuta due anni dopo (1998), cambiò soltanto il nome dei ribelli: da AFDL a RCD, (Rassemblement Congolaise pour la Démocratie, Raggruppamento Congolese per la democrazia). Essi presero Goma e tentarono di sbarazzarsi di Laurent Kabila, ma non ci riuscirono poiché Laurent Kabila con l’appoggio dell’Angola e dello Zimbabwe riuscì a bloccare ogni voglia d’invasione.

I guerriglieri RCD e dell’AFDL, come del resto gli stessi M23, sono creati, sostenuti e foraggiati dal Ruanda che dal 1996 controlla la regione orientale del Congo e con essa la gente che vi abita, le terre e naturalmente le miniere ricche di giacimenti strategici indispensabili per fabbricare il coltan che è la combinazione tra  la Colomibte e la Tantalite. Il coltan ha l’aspetto di sabbia nera e rappresenta un elemento fondamentale per poter attivare le video camere, i telefonini e tutti gli apparecchi HI TEC (come la playstation). Inoltre serve a ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione rendendo possibile un notevole risparmio energetico.

Sicché si fa presto a capire che è questo minerale la causa principale della guerre che dal 1998 hanno causato la morte di più di quattro milioni di persone in Congo. Siccome il minerale è uno dei componenti fondamentali per il funzionamento dei cellulari, e quindi più più prezioso dei diamanti, il numero dei morti destinato a crescere e con esso il saccheggio delle enormi risorse del paese. da una delle quali dipende il futuro dell’umanità.

Una di queste è la foresta pluviale dalla quale dipende il futuro dell’umanità poiché questa del Congo è la seconda per estensione dopo quella Amazzonica, una delle principali difese del pianeta contro i cambiamenti climatici. Essa da venticinque anni è assediata dall'industria del legno. Le multinazionali fanno a gara a chi taglia di più sebbene Greenpeace continui a ripetere che “così si rischia la catastrofe ambientale”. I dati sono agghiaccianti: tra il 1990 e il 2007 (ultimo censimento), l‘Africa tropicale ha perduto oltre 55 milioni di ettari di foresta naturale, con un incremento del 25 per cento del tasso di distruzione rispetto all’epoca del Summit di Rio.

I paesi della regione della Foresta Africana dei grandi primati hanno aumentato la loro produzione industriale di legno del 58 per cento dalla metà degli anni ’90. Nello stesso periodo non c’è stata alcuna significativa crescita delle aree di foresta destinate alla conservazione. Al contrario,in questo periodo diversi milioni di ettari di foresta incontaminata sono stati ceduti alle compagnie del legno per l’ estrazione industriale di tronchi. Questo accade - s’è detto - sebbene da venticinque anni si denunci questo scempio.

Ferita a morte la foresta del Mondo
Dall’alto, andando verso Bolila, era un mare smeraldo senza un’increspatura, compatto e ininterrotto, inesorabilmente fitto, meravigliosamente opprimente, non una strada o un cortile d’altre tinte, soltanto le barocche serpentine di corsi d’acqua color della prugna. Era il primo marzo del 1986. Volavamo da due orette incontro alla foresta equatoriale per i corridoi di un cielo illuminato da un sole smorto, e la sola cosa viva sull’immensa immobile distesa di giada era la piccola ombra di quell’aquilotto meccanico che sfilava, quattromila piedi in basso, sul fondo della selva, in punta ad alberi calcinati di secoli. La rotta era Nord, definita dalla possente curva del Congo (il fiume di Cuore di tenebra, il romanzo africano di Joseph Conrad), che appena lo si intravvedeva in fondo al verde il quale continuava a non offrire segni di presenza umana.

Ma poi Nino, il pilota, puntò il dito sul vetro della cabina e l’aeroplanino bianco e rosso scivolò d’ala e si abbasso. Eccola allora la vera foresta: un groviglio, una inestricabile ragnatela di fogliame profonda centinaia di metri e lunga fin dove arrivava lo sguardo. S’abbassò ancora l’aeroplanino e la sua ombra si posò sulla paglia di una tettoia a lato di una radura cavata di forza alla selva. Qualcuno agitando in alto le braccia segnò la direzione del vento: allora un’altra virata e poi s’appoggiò con un lieve balzo. Nino spense il motore. C’era Hubert che ci aspettava con il fuoristrada. Salimmo. Pochi chilometri lungo un sentiero che terminava su un rettangolo di terra battuta, incassato tra un braccio di fiume e il muro degli arbusti.

Al centro un gruppetto di case prefabbricate: nella più grande, che aveva il tetto conico delle capanne indigene, la tavola era imbandita con la tovaglia a quadratini bianchi e rossi e un ciuffo di giacinti nel mezzo. Intorno sedevano due uomini in silenzio. La vista dava sul fiume; il sole scendeva e l’acqua era viola e rosa e faceva da specchio sicché la sala era in una luce d’arcobaleno. Hubert fece il giro con una pentola di zuppa di cipolle. Fuori una i piroga avanzava, i rematori affondavano le pertiche con fatica, la corrente - si intuiva -  era forte e contraria, ma lo sciabordio non filtrava di tra i vetri.

«Viaggiare sul fiume», scrisse Conrad in Cuore di tenebra, «era come tornare ai primordi del mondo, quando la vegetazione esplodeva sul pianeta e i grandi alberi erano sovrani. Un vuoto corso, un gran silenzio, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa, pesante, torpida. Non c’era gioia nel brillar del sole. I lunghi tratti di via fluviale passavano, solitari, nella tenebrosità delle distanze di fittissima ombra. Su argentei banchi di sabbia ippopotami e alligatori sonnecchiavano al sole gli unì accanto agli altri. Allargandosi le acque fluivano creando gruppi di isolotti alberati, si poteva perdere l’orientamento come se si fosse in un deserto». Hubert, tedesco di Baviera, non conosceva Conrad, non l’aveva mai letto; in compenso conosceva molto bene la spiaggia di Jesolo dove, ogni estate, passava i quaranta giorni di vacanza, che - confidava - era l’unica cosa che contava nella sua vita di scapolo cinquantenne.

Eppure il fiume non l’aveva deluso quando da Kinshasa, capitale dello Zaire ( che ora si chiama di nuovo Congo) aveva dovuto risalirne il corso in motobarca, fino a qua, per novecento chilometri, impiegando appena una decina di giorni, come mi diceva con una puntina d’orgoglio ricordandomi che Stanley compì lo stesso tratto in quattro settimane.

Hubert, come Stanley, il viaggio l’aveva fatto tutto da solo, o meglio era l’unico bianco tra quindici neri. Sulla motobarca aveva caricato la cucina economica, il frigorifero, la piccola turbina, il bulldozer, le accette e l’attrezzatura di falegnameria, le scatole con i viveri, il watercloset, una tenda, e i suoi due cani, pastori tedeschi, perché, mi spiegò, qua non c’erano che alberi con i loro rami penduli a specchio del fiume. Non esisteva villaggio, neanche una capanna c’era fino al 1984 quando ci aveva messo piede lui, geometra e factotum di una compagnia made in Germany, ma con seguito in ogni continente, specializzata nel disboscamento e nel commercio dei legnami nobili. In stremanti mesi di improbo lavoro Hubert aveva  abbattuto gli alberi, livellato il terreno, tirato su i prefabbricati e sistemato il watercloset. Soltanto a “base” ultimata erano arrivati gli altri: Roger, belga, Gerard, francese ( stavano fumando seduti sul divano), con i caterpillar e gli autocarri, le scavatrici e gli spala terra, i neri boscaioli e le loro famiglie, insomma tutto l’armamentario per sferrare un decisivo e redditizio attacco alla foresta.

La storia della base di Bolila, una delle tante nella foresta equatoriale zairese, è un capitolo esemplare dei rapporti Occidente-Africa, è una pagina accorata che potrebbe ben figurare nel dossier denuncia dell’ecologo francese René Dumont il quale, per primo, ha parlato di sudamericanizzazione dell’Africa per spiegare come le pressioni distruttive sono in atto a ogni latitudine. Perché eravamo venuti a Bolila? Per avere un’idea di quel che succede nel più selvaggio dei giardini del mondo.

La Fao sostiene che undici milioni e mezzo di ettari di foresta tropicale (su un totale di un miliardo e 950 milioni di ettari) vengono spianati ogni anno nel globo. Questo vuoi dire che ogni dodici mesi sparisce una fetta di giungla grande come la Svizzera. Avverte sempre la Fao che le conseguenze negative del colossale saccheggio, non si esauriscono nell’area direttamente interessata, ma hanno conseguenze sull’assetto dei fiumi: l’acqua non trattenuta e filtrata dalle piante scorre sul terreno limandolo, trascinandolo a valle, causando inondazioni di dimensioni bibliche, e lasciando dietro di sé il deserto.

Va anche detto che all’origine della distruzione c’è un infernale intrico di povertà e sfruttamento esterno. Almeno centocinquanta milioni di contadini praticano una agricoltura itinerante, basata sul taglio e sull’incendio della foresta seguiti dall’abbandono del suolo, non più fertile dopo appena due anni. Già questo provoca un quarto dei danni globali. Il vero e micidiale distruttore rimane comunque l’uomo moderno. Il quale con il suo armamentario di seghe a motore, di bulldozer e di erbicidi non segue pratiche razionali e conservative, ma spreca mediamente un terzo del legno ricercato e, per accedere ai pochi alberi di maggior valore, arriva a danneggiare e a degradare fino ai tre quarti del tessuto forestale.

Cosicché gli esperti della Fao hanno concluso che le foreste ormai sono erose al ritmo di ventidue ettari al minuto e secondo altri la cifra andrebbe raddoppiata. Comunque sia - è opinione diffusa tra i naturalisti - se la distruzione continuasse in maniera costante e uniforme, in mezzo secolo sarebbero tutte eliminate. La foresta equatoriale dello Zaire, cento milioni di ettari, trova riscontro, per ampiezza e foltezza, soltanto al di là dell’Atlantico, nella analoga foresta amazzonica. I due terzi, cioè sessanta milioni di ettari, sono già destinati all’esportazione; ciò dovrebbe avvenire nel giro di pochi lustri.

Eppure ventisei anni fa, nel buio percorso da caldi vapori, era difficile rendersi conto di come l’attacco si sarebbe sviluppato a ritmi così vertiginosi. Era una notte splendida, carica di stelle, di tutte le stelle, anche la Croce del Sud, tanto basse da sembrare luci di case lontane appena un paio di campi più in là; i grilli cantavano da matti, insieme alle scimmie. Ma il silenzio era più forte, il silenzio della selva che è là dietro l’acqua, da ogni parte, tremendo infinito inferno verde. Hubert aveva sciolto i cani i quali, assicurava, erano addestrati ad addentare soltanto gli indigeni qualora si fossero a penetrare nel recinto del campo.

Soltanto ai primi chiarori dell’alba, che qua compaiono assai prima delle sei, riprendeva la vita con i ritmi propri della civiltà grossolana ed efficientista. Hubert dava i tre colpi di campana, apriva i cancelli del recinto, e mentre i neri salivano sui camion e i guidatori scaldavano i motori, egli preparava la colazione. Alle sei e trenta, puntualità di Germania, partii con Roger per il cantiere. La jeep passò per il centro imbancarellato del villaggio dei boscaioli, proseguì per qualche chilometro lungo il fiume, e poi prese uno stradone nella selva, calvo e dritto, lastricato di tronchi di modo che l’acqua possa filtrare e non si formi il pantano.

A furia di piccoli sobbalzi, tra nuvole di polvere, si arrivò a un largo spiazzo: il cuore del cantiere, già in fermento. Colossali bulldozer afferravano i tronchi e di corsa li accatastavano nel deposito accanto allo stradone. Intanto, in bilico su esili armature di legno, i boscaioli a coppie di sei vibravano colpi d’ascia sui tronchi secolari. Più in là altri con le motoseghe tranciavano i rami e le radici di quelli abbattuti, che poi i bulldozer avrebbero portato via, ultima fase di una catena di montaggio di terribile efficienza. Il rumore era intenso, il mio accompagnatore doveva gridare per spiegarmi che la difficoltà maggiore stava nel pilotare la caduta in modo da non intralciare il programma dei lavori. L’incolumità del personale, mi sembrò che fosse stato un problema secondario.

Ogni albero ha un tronco di una decina di metri di circonferenza e svetta sino a sessanta metri; sotto le sue fronde si apre uno spazio vasto come una cattedrale. Non so spiegare. Provate a immaginarla una mattinata così, in un caldo appiccicoso, nella foresta tropicale, in mezzo a questi uomini organizzati con tecniche moderne: non c’è confronto con i contadini e i cacciatori i quali erano, in passato, i soli abitatori della foresta. Si può stare a guardare e sentirsi lontani, imbarazzati? L’albero veniva giù con l’imponenza di un palazzo, trascinandosi nella rovina il frastagliato fogliame, il carico di liane, e l’impatto con la terra era un rumore cupo, attutito dal sottobosco di muschi e di felci le quali crescono all’altezza del petto di un uomo. Era ed è un’immagine di grande tristezza: il silenzio degli uccelli, gli automezzi con i motori al minimo, gli uomini con lo sguardo fisso e l’ascia in mano, i giochi di luci e di ombra, i vaghi filamenti di caligine, le macchie di colore: il viticcio azzurro della dicindra che teme i raggi del sole, i fiori rossi dell’onoto, i petali gialli delle orchidee. Un mondo che muore e non rinasce.

Mi viene fatto di ricordare il noto studio del biologo Paul Richards, là dove dice che gli alberi della foresta primaria hanno una durata di vita di centinaia d’anni, mentre quelli della foresta secondaria, la quale dovrebbe sostituire la foresta primaria distrutta, hanno un legno poco compatto, crescono rapidamente e di rado raggiungono i vent’anni, sicché le ferite inferte non saranno più rimarginate. Il professor Richards ipotizza pure una sequenza di trasformazioni progressive che riporti tutto alla situazione originaria, ma avverte, con dichiarato ottimismo, che il tempo trascorso dal disboscamento alla restaurazione della foresta primaria dovrà misurarsi probabilmente in secoli, purché sia indisturbato. Chiesi a Roger quanti alberi abbattevano al giorno. «Cinque, sei, dipende», rispose segnando i numeri con le dita delle mani.

La minaccia planetaria più grande
Ventisei anni dopo, ma anche prima, i numeri delle piante abbattute li calcola il computer. I metodi di deforestazione sono diventati sempre più rapidi e lucrosi.  Moabi, Afrormosia, Bubinga, Ayous, Wengé, tra i legni i più pregiati, vengono individuati e abbattuti in un così grande numero da far temere la loro estinzione. I protagonisti dell’industria del legname nel Congo sono principalmente gli europei, i libanesi, ma anche i grandi gruppi asiatici come Danzer, Sodefor, ITB, Safbois. Su tutti pesa l’accusa infamante di distruttori della foresta e dei loro abitanti.

Tuttavia, appena un anno fa, in Aprile, altri 15 milioni di ettari di foresta pluviale pari a cinque volte il Belgio, sono state assegnati alle grandi industrie del legno. A nulla valgono gli appelli di Greenpeace che ha esortato il governo della Repubblica democratica del Congo ad annullare anche i "permessi artigianali di taglio" che spesso vengono utilizzati per coprire le grandi operazioni industriali. Tuttavia, «queste operazioni rimangono al di fuori di qualsiasi controllo o monitoraggio, in un clima di impunità. Ed è così che si uccide la foresta», spiega Juvin Akiak, di Greenpeace Africa.

L’ultimo caso clamoroso è “esploso” trenta giorni fa, quando si è saputo che il governo congolese aveva assegnato vasti appezzamenti di foresta particolarmente ricca di legni pregiati forestali a una impresa controllata da un faccendiere libanese - Ahmed Tajideen - che curerebbe le finanze degli Hezbollah. Le concessioni rilasciate dal Ministero dell'Ambiente del Congo alla Trans-M, così si chiama l’azienda di Tajiedeen, hanno una durata di venticinque anni e comprendono, come detto, centinaia di migliaia di ettari di foresta pluviale.

Ma secondo l’agenzia Reuters, anche potenti uomini d'affari israeliani sono in ottimi rapporti con il presidente Kabila. Come Dan Gertler, un ricco mercante di diamanti che controlla miniere, foreste e gestisce una ampia rete di imprese off-shore. Sicché stando così le cose, secondo gli esperti la foresta pluviale africana sarà dimezzata nel giro di dieci anni. Lo scenario che si prospetta è allarmante, soprattutto per le inevitabili conseguenze che si avranno sul piano climatico, economico e antropologico. I primi dati raccolti annunciano che il solo Congo rilascerà oltre 34,4 miliardi di tonnellate di CO2, una quantità equivalente a quella irrorata dalla Gran Bretagna negli ultimi sessant’anni. Buon vento, che altro aggiungere!

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