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di Liliana Adamo

Il global warming non si arresterà per conflitti d’interessi in atto: tra paesi occidentali (che un tempo si definivano “ricchi”) e quelli in via di sviluppo; tra attività produttive legate all’archetipo “crescita/PIL” e difesa del pianeta; tra sfruttamento incontrollato di risorse naturali e nuovi concept legati alla cultura del ridotto impatto ambientale. La tecnologia, forse, non ci salverà, come ottimisticamente si auspicava nel decennio trascorso…ma i conflitti d’interessi si scatenano in tutto il loro potenziale durante gli incontri al vertice, a dispetto di una facciata costellata da buoni propositi (da una parte) e senso d’allarmismo sempre più crescente (dall’altra).

A Doha abbiamo costatato l’endemica mancanza di “protagonismo” e contenuti “forti” con posizioni trincerate dietro egoismi nazionali, nessuna condivisione legiferata per realizzare una “governance” mondiale, promesse, attese, lacrime e malcontenti. Perché è difficile ascoltare dalla delegazione filippina che oltre 57mila persone sono state evacuate proprio durante i giorni del summit, a causa di un ciclone di dimensioni apocalittiche (con forza 4-5 della Saffir-Simpson, scala da uno a cinque e venti che hanno superato i duecento km l’ora) e non provare sentimenti di collera e impotenza. Per farla breve, a Doha si è vista la medesima fiera del mélo istituzionale e risultati limitati a possibilità.

Per conto del governo tedesco, il Potsdam Institute ha rielaborato uno studio reso pubblico già un anno fa, provante, qualora ce ne fosse bisogno, che se l'Europa confermasse l'obiettivo del -30% nella riduzione dei gas serra, si creerebbero ben sei milioni di posti di lavoro entro il 2020. Sostanzialmente, l'Unione europea ha già raggiunto il target del 20% al 2020 e può impegnarsi nella fase 2, indicando gli obiettivi da raggiungere, consolidando quel fronte a favore del -30% per le riduzioni. Insieme all’UE, Australia, Norvegia e Svizzera si sono dichiarate pronte a sottoscrivere gli accordi (con obiettivi ancora da individuare), ma l’intesa è depressa dai governi del Canada, Nuova Zelanda, Giappone e Russia, intenzionati a resistere alla non adesione, mentre si attende il 2015, anno nel quale tutti i paesi saranno tenuti a un’unica cooperazione su scala mondiale.

Le difficoltà dei mega-convegni consistono nel fatto che a parteciparvi e verosimilmente attuare provvedimenti (il più delle volte, si risolvono in meri espedienti e rinvii all’infinito), sono soprattutto entità politiche nazionali, mentre, chi prescrive la cura dovrebbe rientrare in un gruppo scelto d’eminenti ecologisti, climatologi, luminari in questioni ambientali; da parte loro, i rappresentanti dei vari governi dovrebbero ascoltare, trovare soluzioni pratiche e agire di conseguenza. Presunzione davvero inattuabile, chimerica, poiché lo stesso gruppo d’ecologisti, climatologi, scienziati, troverebbe il modo di creare, a sua volta, successivi conflitti e malanimo.

Per non parlare della scelta di campo: chi schierare e chi decide cosa? E finché ragion politica, lobby industriali e umana indole non trovano intese unanimemente condivise, l’ambiente fa il suo corso, il cambiamento climatico si espande in potenza, arrecando danni che introducono nuove voci nei bilanci d’ogni paese (380 miliardi di dollari solo nel conteggio del 2011).

Il conflitto d’interesse esiste tra il tangibile (aumento delle temperature e dei livelli oceanici, scioglimento dei ghiacciai, eventi meteorologici estremi, siccità, estinzioni della specie, mancanza d’acqua potabile, desertificazione, compromissione del benessere umano) e il sistematico (economia di mercato). Nel sistematico la ragion politica muove le proprie pedine sulla scacchiera secondo ciò che ritiene opportuno: Kyoto 1, Kyoto 2, emissioni sì, emissioni no, quale percentuale fattibile per la propria economia e interesse nazionale, parcellizzando appunto, il problema. A questo servono i summit, non a contrastare sensatamente il surriscaldamento e i suoi effetti sul clima. Al punto che le innumerevoli parate globali e gli accordi mancati, hanno raggiunto dieci gradi in più di parossismo.

Nel frattempo i messaggi, neanche tanto subliminali, sono chiari, come quel “prepariamoci al peggio” pronunciato dall’ormai ex ministro Clini, riferendosi agli effetti climatici sul nostro sgretolabile territorio. E ci chiediamo come sia possibile, per un titolare del dicastero ambiente, allargare le braccia e ripiegare su un laconico, prepariamoci al peggio… Non si sentirebbe meglio, l’ex ministro di un ex governo “tecnico” se intraprendesse una strada nuova, propulsiva e realistica, giusto per appagare il senso dei ruoli che ha ricoperto dal 1990 a oggi? Da un ex direttore generale del Ministero dell’Ambiente passato a membro del governo, autore di 150 indagini ambientali ed epidemiologiche su impianti energetici, chimici e metallurgici, mediatore d’eccellenza nelle difficili relazioni tra politiche ambientali e industriali ci si sarebbe attesa maggior grinta e determinazione.

E se durante il forum organizzato dalla delegazione cinese (insieme a Xie Zhenhua, leader della commissione cinese alla conferenza, il segretario della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici - Unfccc - Christiana Figures e il rappresentante del Fondo globale per l'ambiente della Banca Mondiale, Naoko Ishii), Corrado Clini ha tenuto a ribadire quali gli sforzi stia compiendo il nostro paese per adempiere gli impegni sottoscritti in sedi internazionali, non si valuta attentamente una contraddizione fondamentale.

L’impegno per l’eco-compatibile che ha portato l’Italia nel 2011 a essere prima al mondo grazie alla capacità energetica del fotovoltaico connesso alla rete, conseguendo il 33% di nuova potenza installata, si riferisce a una politica di sostegno per le rinnovabili (gli incentivi raggiungono i 6,7 miliardi di euro sul solare e i 5,8 sulle altre fonti alternative) ma fa a pugni con il documento di Strategia Energetica Nazionale (Sen), emanato dal Ministero dello Sviluppo Economico, che penalizza le prime, con il rischio di vanificare quanto di buono e meritorio si sia finora concretato.

Ancora: su proposta di Clini, la mozione a svincolare dal patto di stabilità quelle risorse necessarie per un piano d’adattamento ai cambiamenti climatici e la messa in sicurezza del territorio, stabilito dall’UE (il documento tout court afferma tra l’altro, i limiti alle costruzioni in zone a rischio, il contenimento nell'uso del suolo, la manutenzione dei corsi d'acqua, il recupero dei terreni abbandonati o degradati…), pur con i suoi risultati encomiabili, contiene di per sé limiti “dialettici”.

Dove risiedono le critiche? Il dossier Clini afferma il principio di vietare l’uso a fini residenziali, produttivi, per servizi e infrastrutture, per quelle zone a rischio idrogeologico molto elevato, in conformità a quanto già approvato dai vecchi Pai, che però richiedono un sostanziale ripasso. I Pai (piani di stralcio dei Piani di bacino), si limitano a inventariare e identificare le aree a pericolosità idraulica, mentre la direttiva europea guarda oltre, presumendo l’elaborazione di un piano di gestione per ogni bacino, da attuarsi entro il 2015 con la realizzazione di misure che possano ridurre i rischi secondo criteri di sostenibilità (ad esempio, delocalizzazioni), intervenendo su elementi preesistenti.

In pratica, la strategia alla tutela del territorio non può limitarsi al divieto di costruire il nuovo, ma deve intervenire per la gestione del rischio in zone già edificate e fortemente esposte; ridefinire, nell’ottica della direttiva europea, le nuove criticità, come i flash flood, o tristemente famose “bombe d’acqua”.

Al momento, dopo le dimissioni “forzate” del governo Monti, il documento già in discussione al Cipe potrebbe addirittura essere prorogato, in attesa di nuove elezioni e di un altro Esecutivo; ma un ulteriore ritardo si presenterebbe come inammissibile, per le problematiche intrinseche al nostro territorio e per Bruxelles che non concederebbe dilazioni di sorta.