E' una domanda che ogni anno si riaffaccia, inquietante, e alla quale è
difficile dare una risposta definitiva: perché guardare il Festival di
Sanremo? Perché, soprattutto, più di dieci milioni di persone,
per cinque sere di seguito, lo fanno senza vergogna e, anzi, con vezzo voyeristico,
se ne fanno pure un vanto? Perché, ancora, un'Italia oggi alle prese
con problemi più gravi di ieri, ma forse ancora migliori di quelli di
domani, si blocca, stupita e curiosa, a guardare uno spettacolo obsoleto, un
mausoleo vivente fuori dal mondo, un rigido protocollo che azzera chiunque,
che spegne intelligenze e irrita per la sua offensiva banalità? Le risposte
alla complessità sociologica di questi quesiti sta tutta in uno slogan,
in quello spot semplice e disarmante, che qualche anno fa il sensale per eccellenza
della messa cantata degli italiani, Pippo Baudo, sfoderò con grande non
chalance in una sala stampa dell'Ariston gremita fino all'inverosimile di giornalisti
curiosi. Più di capire il fenomeno che di conoscere i testi delle canzoni
in gara: perché Sanremo è Sanremo disse "Pippo nazional-popolare".
E fu subito applauso. Razionalmente non ci sarebbe una ragione al mondo per spendere cinque sere
della propria vita a sopportare i sudori freddi e le papere verbali di un gruppo,
sempre diverso, di professionisti dello spettacolo disperati che, chissà
come mai, sul palcoscenico del minuscolo teatro della città dei fiori
riescono, sempre e comunque, a dare il peggio di loro stessi. O ad ascoltare
"le perle" di quella musica italiana che in quel luogo ne esce sempre
svilita, "suonata" come un pugile, perché vincono i peggiori
mentre i migliori non sono mai capiti. Ma poi fanno soldi a palate con i dischi
di platino. Eppure, gettata alle ortiche la ragione, davanti a Sanremo anche
il più solido sistema immunitario innalzato davanti all'imbecillità
catodica si arrende. E soggiace a Panariello. E sbircia, furtivo, nella scollatura-
gonfia e birichina- di una neomamma troppo bella per essere vera e che ha tutto
di invidiabile. Anche Totti. Oppure si improvvisa critico musicale e si unisce
al coro da bar declamando che della canzone della Oxa non si capiva niente,
perché a Sanremo ci vanno le canzonette, non si fa sperimentazione, e
tante grazie a Cocciante che ci ha fatto riscoltare "Bella senz'anima".
Dietro le quinte, intanto, è un formicaio di cervelli in fuga. Che si
lamentano, accusano, fanno confronti con identici horror del passato, confrontano
i punti di differenza dello share, due, tre, quattro, un disastro!, e chiedono
scusa, cercano capri espiatori, s'ingegnano fino allo spasimo per non deludere
i costosi sponsor, si rovinano la salute e la carriera consapevoli, tuttavia,
che non perderanno mai il posto perché targati dalla razza padrona della
politica. Perché è Sanremo, bellezza. E noi possiamo solo guardare.
Sia chiaro: quello a cui stiamo assistendo quest'anno è il peggior Sanremo
della nostra vita. Il fatto che nessun guizzo di novità, un gesto di
fantasia o di coraggio, abbia potuto sollevare, agli occhi dei telespettatori,
la polvere del tempo e dell'anacronismo di questa kermesse, sta facendo ricredere
anche i più solidi custodi dell'ortodossia canora sull'opportunità
di decretare la fine, per raggiunti limiti di età, del Festival. Ormai
le hanno provate tutte. E più si va avanti, più le industrie discografiche
fanno la voce grossa, più il comune di Sanremo detta regole su quali
fiori pubblicizzare e più i divi al botulino di Hollywood strizzano le
tasche della Rai per farsi rimborsare il jet privato da Nizza e fare qualche
sorriso idiota alla telecamera per pochi minuti. La colpa non è di nessuno,
si potrebbe dire, perché c'è sempre una fine a tutto e l'accanimento
terapeutico, a lungo andare, è lesivo della dignità delle persone.
Per chi lo vede e per chi lo fa il Festival.
Ma c'è un altro aspetto che va considerato, che in questo momento della
storia politica del Paese è da sottolineare senza tema di smentite o
di rigidità ideologiche: per anni il Festival di Sanremo ha rappresentato
l'unica, vera corazzata con cui la Rai si è sempre fieramente contrapposta
a Mediaset. Ci sono stati anche anni in cui il servizio pubblico radiotelevisivo
è riuscito a garantire la propria sopravvivenza grazie agli introiti
di Sanremo e del suo strampalato circo Barnum di contorno. Sanremo è
stato, insomma, un po' come la linea del Piave che non ha mai conosciuto una
Caporetto. L'aggressività e la prepotenza che stanno connotando questa
campagna elettorale, hanno finito pure per inibire un Panariello che, da buon
toscano, vorrebbe dire ciò che pensa con la consueta irriverenza della
sua razza, eppure non lo fa perché anche sul palcoscenico dell'Ariston
c'è un clima di intimidazione che fa paura: senza la libertà,
anche il miglior comico diventa un pagliaccio triste. L'altro giorno la Lega
ha cominciato ad insinuare che i costi di Sanremo sono esorbitanti, che la Rai
dovrebbe risparmiare invece di propinare agli italiani un John Travolta bollito
e non certo all'altezza della "Febbre del sabato sera". E subito "Il
Giornale", quello di famiglia, s'intende, si è premurato di fare
i conti in tasca alla Rai sui cachet dei conduttori. Il motivo è semplice:
tutto ciò che rende la Rai forte va attaccato e, se possibile, dissolto.
Specie in questi giorni, quando le boutade sanremesi hanno forse messo un po'
più in ombra la pagliacciata americana elettorale di Berlusconi.
Sanremo, senza dubbio, è morto. Noi non stiamo meglio. Ma stavolta, anche
solo per dispetto, varrebbe la pena guardarlo.