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di Sara Michelucci

I testi più politici e polemici di Pier Paolo Pasolini tornano in teatro con lo spettacolo di Fabrizio Gifuni, Na specie de cadavere lunghissimo, al Secci di Terni per la regia di Giuseppe Bertolucci. Una carica emotiva molto forte, quella che Gifuni riesce a mettere in atto, in un’ora e mezza di serrato monologo che racconta e mostra l’Italia dei primi anni ‘70, attraverso la qualche si preannuncia lo stato del paese attuale.

Nella prima parte Gifuni compendia il pensiero civile e politico di Pier Paolo Pasolini con frammenti tratti da alcuni suoi scritti; poi, dopo essersi spogliato dei panni dell’intellettuale, l’attore interpreta “Il Pecora”, l’assassino di Pasolini, per raccontarne l’ultima notte e quella corsa con quella specie di cadavere lunghissimo per le strade di Ostia.

“Per Eraclito il mondo non è altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l`unità, il Dio che vi sta dietro. Continuo a trovare in queste parole qualcosa che si avvicina moltissimo a quel profondo senso di mistero che accoglie la vita, l’opera e la morte di Pier Paolo Pasolini”, dice Gifuni.

Il racconto ha una carica politica molto forte che si esprime nel corpo attoriale e in dialoghi diretti che narrano di tempi bui, tanto che la tragedia pubblica e privata del poeta diventa il minimo comune denominatore di tutto lo spettacolo. “Il grido lacerante e disperato di un uomo che urlava nel deserto contro l`immoralità e la cecità del vecchio Potere che stava aprendo la strada all`avvento di un nuovo potere - di un nuovo fascismo - il più potente e totalitario che ci sia mai stato.

Ma anche la privatissima tragedia di chi, in virtù di quella stessa catastrofe politica e antropologica che vedeva abbattersi sull’Italia, non riconosceva più i corpi dei suoi amati ragazzi, che sembravano trasformarsi - sotto i suoi occhi - da simpatici malandrini in spettrali assassini. I suoi amati ‘riccetti’ stavano cambiando maschera: dall’innocenza al crimine”, aggiunge l’attore.

Il monologo resta un mezzo vincente per denunciare la barbarie morale e politica, quella incapacità degli uomini di potere di fare il bene della collettività e quella amarezza che l’intellettuale vive nel suo sentirsi impotente. Il linguaggio, che volutamente abbraccia registri differenti, è protagonista assoluto, mezzo per rappresentare gli opposti e gridare la denuncia. Una scelta vincente che muove il pensiero di chi guarda e lo mette di fronte alla dualità. E la decadenza di un Paese si fa viva nella morte del grande poeta e scrittore.