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Il recente tentativo di scalata a Twitter di Elon Musk ha provocato un dibattito infuocato negli Stati Uniti sui limiti alla libertà di espressione e sulle implicazioni del passaggio della proprietà del popolare social media all’uomo più ricco del pianeta. Il fondatore di Tesla ha offerto 43 miliardi di dollari per acquisire tutte le azioni di Twitter non in suo possesso, dopo che negli ultimi due mesi si era accaparrato il 9,2% della società californiana. L’offerta per ogni azione è pari a 54,2 dollari, cioè superiore del 54% al valore registrato alla fine di gennaio, quando Musk aveva iniziato ad acquistare le sue quote, e del 18% rispetto alla chiusura nella giornata in cui ha indirizzato la sua proposta al consiglio di amministrazione di Twitter.

 

C’è indubbiamente un elemento di megalomania nel progetto di Musk e lo si può osservare sia nelle sue dichiarazioni pubbliche di questi giorni sia nei documenti ufficiali relativi all’operazione. Per il miliardario nato in Sudafrica, sarebbe ad esempio il suo intervento in qualità di unico proprietario a “liberare” le “straordinarie potenzialità” di Twitter. Anche perché, a suo dire, l’indirizzo dato dall’attuale dirigenza al “social” avrebbe eroso la fiducia degli utenti.

Musk ha poi ripetutamente insistito sul valore della “libertà di espressione”, definita come un “imperativo per una democrazia funzionante”. Un contributo alla società in questo senso, secondo Musk, non potrà arrivare se Twitter dovesse conservare la struttura attuale e, dunque, nel caso il suo tentativo di scalata dovesse fallire, potrebbe “riconsiderare la sua posizione di azionista”. Ovvero potrebbe decidere di liberarsi delle quote acquistate a partire dalla fine di gennaio, causando verosimilmente un danno alla società.

Nel consiglio di amministrazione di Twitter le reazioni all’offerta di Elon Musk non sono state esattamente euforiche, nonostante le prospettive in termini di profitto. I vertici della compagnia hanno addirittura deliberato in tempi rapidi un provvedimento conosciuto nel gergo di Wall Street come “pillola avvelenata” per consentire agli azionisti di acquistare altre quote della compagnia a un prezzo scontato e rendere più difficoltosa una scalata ostile. La ragione per cui viene chiamata “pillola avvelenata” è che questa tattica difensiva determina una caduta del valore delle azioni della società in questione.

Sui motivi dell’avversione che prevale nei confronti dell’offerta di Musk si sta discutendo su tutti i media finanziari e non solo. Anche se quest’ultimo ha una fortuna stimata di oltre 264 miliardi di dollari, secondo il Wall Street Journal essa consiste quasi del tutto in azioni di Tesla e SpaceX, la sua compagnia aerospaziale, e una vendita massiccia per finanziare l’operazione Twitter comporterebbe “una riduzione del controllo [su queste società] e un ingente conto con il fisco” americano. C’è in alternativa la possibilità di un finanziamento bancario sulla garanzia delle sue azioni, ma il Journal indica anche in questo caso svariati possibili ostacoli, tra cui l’estrema volatilità del titolo di Tesla in borsa.

Al di là della sfera prettamente finanziaria dell’operazione, a fare notizia è soprattutto la controversia esplosa circa le implicazioni che essa avrebbe per gli oltre 186 milioni di utenti di Twitter in tutto il mondo. Da un lato, Elon Musk continua a parlare della necessità di fare del social media una piattaforma dove venga pienamente garantita la “libertà di espressione”, senza le limitazioni odierne. Per i suoi detrattori, al contrario, l’idea di dare libera voce a chiunque non farebbe che alimentare radicalismo, odio e disinformazione.

La questione si inserisce in un frangente caldissimo, con le necessità di propaganda anti-russe USA/NATO che hanno aumentato smisuratamente le pressioni anche su Twitter per adeguare i contenuti pubblicati alla versione ufficiale di Washington. Le voci indipendenti e con un certo seguito sono state in queste settimane sospese dal “social” o, più spesso, bollate come “come media affiliati allo stato russo”. In parallelo, notizie e opinioni favorevoli al regime ucraino o che, addirittura, esaltano i combattenti neo-nazisti e i loro crimini sono amplificate, mentre per quelle filo-russe o semplicemente obiettive e più equilibrate viene ridotta la visibilità.

Per politici e commentatori “mainstream” questo modello di controllo dei contenuti pubblicati in rete rappresenta l’ideale di democrazia e libertà di espressione, fatto in altre parole di un’unica verità elaborata dal governo americano e diffusa dagli “autorevoli” media ufficiali. L’editorialista “neo-con” del Washington Post, Max Boot, è stato tra i più espliciti accusatori di Musk, scrivendo qualche giorno fa che il fondatore di Tesla “sembra credere che sui social media tutto è permesso”, quando invece, “affinché la democrazia sopravviva, è necessario un maggiore controllo dei contenuti, non meno”.

Se l’isteria degli ambienti politici e della stampa ufficiale negli USA davanti alle manovre di Elon Musk, ufficialmente per ristabilire piena libertà di espressione su Twitter, sembra avere le sembianze di una crociata anti-democratica è perché lo è a tutti gli effetti. Le restrizioni imposte da governi ed enti regolatori ai contenuti sgraditi su piattaforme informatiche e social media sono d’altra parte una realtà sempre più pervasiva e che punta a stringere le maglie della censura per allineare ideologicamente questi ultimi a giornali come New York Times, Washington Post o Guardian, sempre più simili a casse di risonanza della propaganda dei rispettivi governi.

Da un punto di visto normativo, va ricordato anche che le intenzioni di Musk si scontrano con le tendenze esattamente opposte di praticamente tutto l’Occidente. Non solo gli Stati Uniti chiedono leggi ancora più restrittive in relazione a ciò che viene pubblicato, ma anche nell’Unione Europea e in Gran Bretagna sono in discussione provvedimenti anti-democratici per imporre maggiori controlli sugli algoritmi che regolano il grado di diffusione dei contenuti non allineati.

Nell’attaccare Musk e la sua scalata a Twitter, inoltre, non pochi hanno evocato gli scenari apocalittici che si aprirebbero se un “social” così popolare diventasse proprietà esclusiva di un multi-miliardario. Se ciò ha evidentemente implicazioni serissime, a cui si accennerà tra poco, c’è da chiedersi dove erano questi politici e commentatori quando, ad esempio, Jeff Bezos metteva le mani sul Washington Post o, più in generale, quali contro-misure avevano avanzato per evitare che la grandissima parte dei media finisse nelle mani di super-ricchi e corporations.

Con questo si giunge appunto alla natura gravemente distorta di un sistema che, per riaffermare il carattere democratico dei propri luoghi (virtuali) di scambio di idee, sembra doverne affidare il controllo all’uomo più ricco del pianeta. In senso assoluto, la scalata di Elon Musk, anche tralasciando le sue posizioni politiche in larga misura reazionarie, non ha perciò nulla di democratico o progressista e, al di là delle sue intenzioni vere o presunte, non fa che confermare il dominio dei grandi interessi economici e finanziari sui media americani.

In definitiva, mentre Musk esalta il ruolo della “libertà di espressione”, è la stessa realtà in cui una manciata di individui detiene una quantità di ricchezze superiore alla quasi totalità del resto della popolazione a escludere del tutto, indipendentemente dall’identità del proprietario di Twitter, la possibilità di costruire un qualsiasi modello di “società democratica funzionante”.