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di Raffaele Matteotti

Il 20.5% delle aziende italiane che contano da 20 a 199 addetti è fallito nel 2005; per le grandi aziende, quelle oltre i 200 addetti, i fallimenti hanno riguardato il 12.8% del totale.
Una media azienda su cinque, una grande azienda su otto è sparita per fallimento l'anno scorso, stabilendo un altro di quei record che per il nostro paese sarebbe meglio non vantare.
Un aumento record dei fallimenti certificato dalla CGIA di Mestre, che denuncia la difficoltà del sopravvivere delle imprese nel nostro paese. Le uniche a sfuggire al trend sono le piccole aziende, che questo anno sono fallite meno dell'anno precedente, in controtendenza sul dato complessivo che vede il totale dei fallimenti aumentare del 10% sul 2004, con un clamoroso +50% per i fallimenti delle grandi imprese. Un dato che dovrebbe demolire definitivamente il castello berlusconiano del governo favorevole all'imprenditoria. La strage di imprese si spiega in realtà con una politica che non è stata amica dell'impresa, quanto al più di qualche impresa legata agli interessi della coalizione di governo. Per le altre è stata notte fonda. Il dissesto del sistema bancario si è tramutato in costi ed inefficienza per le aziende; la rete delle infrastrutture si è deteriorata al riparo della retorica sulle grandi opere; il relativo sollievo fiscale non ha compensato l'aumento di tutti i costi derivati dai monopoli di fatto sui servizi.

Le aziende sane hanno sofferto la concorrenza straniera dovendo correre con un handicap di sistema fortemente determinato dalle decisioni del governo. Il crollo dell'immagine internazionale del paese non è stato in alcuna maniera compensato dall'idea di trasformare le nostre ambasciate in show-room; al contrario l'inettitudine diplomatica ha scatenato polemiche ed esposto il nostro paese a facili ironie, anche per le incomprensibili designazioni agli istituti di cultura italiana all'estero, una volta un fiore all'occhiello.

Il nostro governo è il paria d'Europa. Il governatore della Banca d'Italia si è dovuto dimettere dopo aver dato scandalo per mesi e gettato discredito sul paese insieme a Giulio Tremonti, che ha sfruttato importanti incontri internazionali per fargli dispetti. Il nostro paese è rimasto saldamente in cima alle classifiche internazionali dei paesi corrotti, ma in cinque anni non è pervenuta una sola parola del governo contro questo fenomeno, non parliamo poi di provvedimenti.
Il simpatico piazzista che ci rappresenta ha concluso grandi affari con grandi perdite con l'amico Putin e allo stesso tempo si è fatto soffiare il petrolio libico, finito all'amico George; per tacere dell'insuccesso totale sul versante dei rapporti con i fratelli europei; tutte cose che alla fine si pagano: cioè le paghiamo noi.

Gli spot dell'astuto comunicatore non dovrebbero riuscire a nascondere agli occhi dell'impresa i fallimenti che sono del governo Berlusconi, ma che appartengono anche di diritto a Confindustria e ai principali attori economici italiani, lesti ad approfittare facendo "affari" e godendo dei vantaggi offerti da Berlusconi, anche quando siano stati clamorosamente dannosi per il paese. Quelle aziende fallite, tolta una quota ormai fisiologica di fallimenti di società criminali, sono la dimostrazione che le ricette proposte negli ultimi anni sono dannose in primis per le imprese sane. Lo scenario deflativo, il drenaggio delle risorse verso le rendite e la perdita di appeal sui mercati internazionali, sono figli di una coazione a ripetere gli errori degna del peggior autismo.

Ancora oggi gli economisti preferiti dai salotti buoni puntano sull'impoverimento dei lavoratori come unica leva per una riscossa, chiedono sacrifici ai sindacati che elemosinano la sopravvivenza dei loro iscritti. Il paese declina verso l'impoverimento e l'unica soluzione possibile sembra paradossalmente far lavorare di più quei pochi che hanno un lavoro decente, possibilmente pagandoli meno. Lo sostengono in tanti, con l'autorevole sicurezza di sentirsi (abusivamente) depositari di una scienza segreta, fingendo di ignorare che le retribuzioni sono, oltre a una delle poche basi imponibili certe, il motore dei consumi interni, destinati a precipitare di conseguenza.

La Cina, paese in tumultuoso sviluppo, pianifica di destinare il 2,5% delle sue risorse alla ricerca; il nostro paese, con il benestare dell'impresa, ha praticamente azzerato questa voce di bilancio. Il potere d'acquisto di un dipendente cinese è superiore a quello dell'omologo italiano e questo è un dato che dipende da una scelta indubbiamente politica, perseguita operando una drastica redistribuzione sempre più "selezionata" dei redditi. Nel nostro paese, a Pil praticamente costante negli ultimi cinque anni, grandi quantità della ricchezza prodotta sono state dirottate verso pochi fortunati e tolte dalle tasche di una moltitudine vastissima, decimando la classe media e creando vaste popolazioni di italiani economicamente a terra.

Se al paese vengono raccontate piccole e grandi bugie, nascondere o cercare di falsare le cause che hanno provocato la moria della nostra struttura produttiva, è dannoso anche per le stesse imprese, che rischiano di essere ammaliate da queste sirene e perdere altro tempo prezioso in una guerra altamente non economica ai lavoratori. I media ed i commentatori che continuano a propagandare queste ricette scadute dovrebbero tacere e lasciare il campo a nuove relazioni, fondate su una seria programmazione di sistema, volta al ripristino di una più equa distribuzione della ricchezza su scala nazionale. Un approccio serio, ben diverso dal semplice saltare sul carro dei vincitori delle elezioni registrato nei giorni scorsi.