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di Mario Braconi

Tempi duri per le compagnie aeree di tutto il mondo, disastrate dagli irragionevoli costi del petrolio (cresciuti quasi del 50% in un anno) e i prodromi di una recessione globale, che sta influendo negativamente sulle aspettative dei consumatori. Quando British Airways si presenta dai suoi azionisti con un bilancio trimestrale in calo del 90% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, è chiaro quanto grave sia il problema: non si tratta più di impedire l’erosione dei margini di profitto; i vettori globali, oggi, devono lottare per la loro stessa sopravvivenza. In molti paesi, Italia a parte, si tende ad affrontare i problemi con una miscela di pragmatismo e spregiudicatezza. Per allontanare lo spettro di fallimenti disastrosi, i governi stanno dando la loro sentita benedizione alle varie fusioni che si presentano, anche se esse sono indubbiamente discutibili dal punto di vista antitrust: ad aprile Delta e Northwest, rispettivamente il terzo e il quinto vettore USA, dopo un periodo di commissariamento dovuto ai conti in rosso, hanno deciso di unirsi in matrimonio. Il Governo austriaco sta pensando seriamente di disfarsi del suo 43% di Austrian Airlines per cederlo a Lufthansa; si parla della possibile privatizzazione della JAT, compagnia di bandiera serba. Ma la fusione che ha riempito le prime pagine dei giornali di questa settimana è quella annunciata tra British Airways e Iberia; ad inizio 2008 si erano sentite indiscrezioni su un possibile accordo a tre British, Iberia e American Airlines (il primo vettore degli Stati Uniti), divenuto d’attualità dopo Free Skies (Cieli Liberi), cioè l’accordo dello scorso marzo che consente a qualunque vettore europeo o americano di collegare qualsiasi città europea con qualsiasi destinazione negli USA: il network delle tre compagnie sarebbe stato in assoluto il più pervasivo sul mercato. Non è quindi un caso se nel corso della conferenza stampa tenutasi per annunciare la fusione, Willie Walsh, amministratore delegato di B.A., abbia spiegato ai giornalisti di aver discusso il nuovo piano anche con il capo della American Airlines, Gerard Arpey.

Se la “triplice alleanza” sarebbe stato l’optimum, anche la sua versione ristretta (matrimonio tra due dei tre partner, già uniti da alleanze varie e partecipazioni incrociate) ha una notevole valenza strategica: consentirà di unire la forza del vettore britannico sulle rotte verso l’America del Nord e l’Asia con il dominio esercitato da Iberia nei voli da a per l’America Latina, dando vita al terzo vettore mondiale, con un fatturato di 16,5 miliardi di euro, una flotta di 450 aeromobili e un totale di oltre 200 destinazioni.

Insomma, per dirla con le parole di Jean-Cyril Spinetta, presidente di Air France KLM, una faccia nota in Italia, “poiché la capacità industriale in questo settore è in calo, e vi sono soggetti che stanno uscendo dal mercato perché non ce la fanno a rimanere competitivi, l’intera industria subirà drastiche trasformazioni”. Peccato per Alitalia, il nostro tenero nanetto bistrattato da management governi e sindacati che, in un momento in cui concorrenti dalle spalle ben più robuste delle sue, rimane intrappolato nell’ennesima stasi.

Molto si è detto e scritto su questa vicenda grottesca, che ha visto i campioni del liberismo italico (e il sindacato) impegnarsi anima e corpo per far fallire la trattativa con un acquirente che, almeno apparentemente, avrebbe richiesto un dazio in termini di licenziamenti del tutto ragionevole, almeno una volta confrontato con il piano da 7.000 esuberi partorito pochi mesi dopo dal gotha della finanza milanese. Tutto questo anche se c’è qualche malizioso secondo cui Air France KLM ha abbandonato il tavolo in cui negoziava con un’azienda decotta ma ancora viva, solo per tornare più tardi, ad Alitalia esplosa, a raccattare a prezzo di realizzo tutto il buono che ancora ne resterebbe. Ma in questa sede meglio limitarsi a due brevi commenti.

Innanzitutto il Piano Fenice partorito dal Berlusconi prevede l’intervento di Carlo Toto (proprietario di AirOne) nell’insolita veste di “capitano coraggioso”; stiamo parlando di una società che, pur avendo chiuso il 2007 con un utile netto di 6,7 milioni di euro, ha sottoscritto impegni per acquistare nuovi aerei per oltre 2 miliardi di euro. Non sarà che ai cittadini toccherà, obtorto collo, metter mano al portafoglio per pagare il prezzo della incapacità industriale pubblica (Alitalia) e privata (Air One)?

C’è poi la questione della bad company, cioè la bizzarra alchimia mediante la quale tutti i debiti della vecchia Alitalia, assieme al personale in esubero, faranno capo ad una compagine societaria teorica, priva di oggetto sociale e anche di “gioielli di famiglia” da poter eventualmente portare al banco dei pegni: questo perché marchio e velivoli saranno stati trasferiti nella fulgida nuova Alitalia, quella che interessa agli amici del Governo e di Draghi (c’è da aspettarsi di vedere spuntare la codina a punta di Goldman Sachs, prima o poi).

Il 31 luglio Alitalia ha dichiarato di avere una posizione finanziaria netta negativa per circa 1,1 miliardi di Euro con un saldo di cassa di circa 375 milioni di Euro; perciò i debiti finanziari della compagnia bandiera sono circa 1,4 miliardi: è bene sapere che circa la metà di quel debito è costituito da obbligazioni e che i loro portatori sono a rischio di mancato rimborso o, nel migliore dei casi, di rimborso parziale.

In generale, per poter scorporare gli elementi dell’attivo (aeromobili, marchi eccetera) della vecchia Alitalia, occorrerebbe il consenso dei creditori e, quindi, anche degli obbligazionisti. Ma l’infaticabile “governo del fare” sta lavorando in questi giorni a quello che (con notevole faccia tosta) viene definito un “ritocco” alla legge Marzano (sul salvataggio delle aziende in crisi): grazie a questa “piccola” modifica, il cedente, cioè il Tesoro, viene liberato dagli debiti anche senza il consenso dei terzi creditori.

Tradotto in italiano, a rispondere dei debiti, tra cui le obbligazioni detenute anche dalle famiglie italiane, non sarà più il Tesoro, che non dovrà soddisfare i creditori mediante la procedura del Concordato, ma i proprietari della “nuova” Alitalia. Ai tempi di Parmalat bisognava stare attenti ai privati disinvolti, oggi c’è da temere il Tesoro quando diventa imprenditore…