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di Mario Braconi

L’industria automobilistica globale è in grave crisi. Negli Stati Uniti, poi, il settore è al collasso: a spacciarlo l’ostinazione di non voler investire in modelli meno inquinanti e gli effetti della crisi finanziaria sulle disponibilità economiche delle famiglie: sia la General Motors (il più grande costruttore di automobili al mondo) che la Chrysler hanno già bussato più volte alle porte del Congresso chiedendo complessivamente 15 miliardi di dollari per consentire loro la sopravvivenza fino a marzo 2009. La Ford, che pure versa in uno stato di salute leggermente migliore, ha bisogno di una linea di credito come dell’aria. Nel complesso, l’industria ha bisogno di 34 miliardi di dollari per continuare a vivere. Per tentare il salvataggio del settore il Governo ha predisposto un pacchetto di misure così articolato: 1) nomina (governativa) del cosiddetto “car tsar” (lo zar delle automobili), il cui compito sarebbe di vigilare sull’utilizzo dei fondi pubblici messi a disposizione e di fungere da meditatore tra le imprese e i fornitori, rivenditori, imprese concorrenti e sindacati; 2) erogazione di un finanziamento condizionato di 14 miliardi di dollari, contro diritti di acquisto delle azioni delle società per un importo pari al 20% del valore del prestito: in caso di fallimento delle imprese, questi debiti verso il Governo dovrebbero essere soddisfatti prima di tutti gli altri. La cosa però, è in conflitto con il dettato del Quinto Emendamento alla Costituzione Americana, secondo cui la proprietà privata non può essere confiscata in assenza di equo risarcimento; se lo Stato si auto-attribuisce lo status di creditore privilegiato rispetto ai comuni mortali, sta di fatto confiscandoli.

Condizioni per l’erogazione del prestito, il rimpiazzo di debito con aumenti di capitale per due terzi dei valori attuali e appiattimento delle retribuzioni a livello di quelle, più basse, erogate negli stabilimenti USA della Toyota e della Honda; 3) annullamento o forte condizionamento del pagamento dei dividendi agli azionisti; 4) “austerità” (relativa) per i super-manager (mai più ingaggi multimilionari, niente jet privato…); 5) moratoria sull’applicazione delle leggi antitrust per favorire possibili “collaborazioni” tra i tre giganti di Detroit; 6) incentivi alla produzione di veicoli più “verdi”. A parte la misura sui veicoli più ecologici, tardiva ma razionale, una riforma all’insegna del sopruso dello Stato, poco rispettoso dei lavoratori e avverso alla concorrenza: un capolavoro.

Il pacchetto, approvato dalla Camera Bassa (237 voti favorevoli contro 170 contrari), è però inciampato in Senato. A votare a favore del provvedimento soprattutto i senatori democratici eletti negli stati del nord e quelli del Midwest (dove esiste un buon radicamento dell’industria nazionale); i suoi più agguerriti nemici sono stati i senatori repubblicani degli Stati del Sud, dove hanno sede gli stabilimenti delle case automobilistiche giapponesi che producono sul territorio americano. Questi impianti sono da sempre un obiettivo polemico: prima di tutto perché sono controllati da società estere (e sembra essere un dettaglio il fatto che vi lavorino migliaia di Americani) e poi perché offrono salari, assistenza sanitaria e benefit meno “ricchi” di quelli concessi ai dipendenti delle società americane.

E’ proprio una questione legata ai salari ad aver impedito l’approvazione del piano: al tentativo dei repubblicani di imporre ai dipendenti della “Tre Grandi” di Detroit livelli salariali allineati con quelli delle fabbriche giapponesi negli USA, la U.A.W. (United Auto Workers, potente sindacato dei lavoratori del settore automobilistico) ha risposto con un sonoro “No” - e con buone ragioni, visto che, come rileva il Financial Times, che certo non fa il tifo per i sindacati, il contratto collettivo era stato siglato l’anno scorso e scadrà solo nel 2011.

Ma per quale ragione i repubblicani sono così restii a soccorrere il settore automobilistico? In fondo, che cosa sono 14 miliardi di dollari di fronte ad un programma di aiuti alle banche del valore di 700 miliardi (già approvato)? Di quel denaro, il Tesoro può utilizzarne per il momento la metà, e ne ha effettivamente impiegati 335 (di cui la bellezza di 250 in azioni e diritti di acquisto di azioni in banche e fondi). Il che vuol dire che vi sarebbero 15 miliardi ancora disponibili prima di farsi nuovamente autorizzare dal Congresso ed accedere agli ulteriori 350 miliardi, che é proprio la somma che servirebbe a Detroit per tirare un po’ il fiato. Effettivamente il programma di salvataggio da 700 miliardi è destinato alle banche e non all’industria: su questo appiglio nominalistico Bush si è attaccato per impedire o rallentare interventi sul settore automobilistico, preferendo disegnare il provvedimento ad hoc silurato in Senato.

La verità è che Bush non ha mai avuto nessuna intenzione di risolvere la crisi del settore automobilistico, in parte per una “ostilità filosofica verso i lavoratori sindacalizzati”, come sostiene Steny Hoyer, majority leader democratico presso la Camera Bassa americana, ed in parte perché le lobby automobilistiche non sono particolarmente ascoltate in casa repubblicana, più sensibile ai desiderata dei signori del petrolio e delle banche. Ma la vera paura dei Repubblicani, probabilmente è un’altra: se il Governo finirà per entrare nel capitale delle industrie automobilistiche americane, com’è inevitabile, esse potrebbero essere “invitate” (dalla futura amministrazione democratica, ovviamente) a smetterla di bruciare risorse nella costruzione di veicoli mastodontici ed iperinquinanti, per orientarsi sulla produzione di modelli di dimensioni più ridotte e meno assetati di benzina: la qual cosa chiaramente non va bene a chi, come gli amici di Bush, considera una minore dipendenza dal petrolio un grave vulnus per la democrazia.

Secondo il Financial Times, Bush si è trovato stretto tra due fuochi: da un lato concludere il suo mandato, già incredibilmente impopolare per via dei fallimenti bellici e del mercato finanziario, con la bancarotta della più grande industria automobilistica del mondo; dall’altro tentare di non irritare ulteriormente i repubblicani ultra-liberisti, che hanno visto come il fumo negli occhi gli innumerevoli interventi statali di sostegno approvati in questi mesi. Alla fine, però, la prima considerazione è stata considerata prioritaria, tanto è vero che sono di ieri le prime aperture sulla possibilità di utilizzare parte del TARP (Troubled Assets Relief Program, o Programma di Sostegno per le Attività in Crisi), originariamente disegnato per banche e istituzioni finanziarie, anche per le industrie.

E’ così che va letta la dichiarazione di Dana Perino, portavoce di Bush: “In condizioni economiche normali, avremmo preferito che fosse il mercato a dare il verdetto finale sulla sorte di aziende a capitale privato (cioè le avremmo fatte fallire, mandando a casa milioni di lavoratori ndr). Ma, data la debolezza generale dell’economica americana, considereremo tutte le opzioni possibili, incluso l’accesso al programma TARP, per scongiurare il collasso del mercato automobilistico.” Senato permettendo…