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di Ilvio Pannullo


Il colosso assicurativo AIG (American International Group), la più grande compagnia assicurativa al mondo recentemente salvata dal fallimento dalla Federal Reserve, ha in questi giorni finalmente ceduto davanti alle pressioni del Congresso americano, rendendo pubblica la lista delle banche e delle istituzioni finanziarie che hanno tratto beneficio dai 170 miliardi di dollari ricevuti dal Tesoro Usa. La lista elenca le banche che hanno ricevuto pagamenti dalla AIG, per circa 90 miliardi di dollari, nel periodo tra il 16 settembre scorso e la fine dell'anno, cioè il periodo in cui il gigante assicurativo ha ricevuto denaro pubblico. Una lista che include diverse banche europee e che non promette nulla di buono. L’AIG, essendosi assunta il rischio del fallimento di vari istituti emittenti di titoli, ha dovuto far fronte ad una richiesta impressionante di crediti divenuti inesigibili per via del crollo delle borse, arrivando ad un passo dal fallimento prima del salvifico intervento dello Stato. Da stime attendibili risulta che la compagnia ha venduto CDS (contratti di scambio del rischio di fallimento )su portafogli di mutui “non performanti” ed altre attività rischiose per un importo di 441 miliardi di dollari. Secondo il New York Times, tre quarti di quei CDS sono finiti nei portafogli di banche europee, che li acquistavano per eludere gli obblighi di riserva previsti dalle norme europee. Norme poste per tutelare la stabilità e l’interindipendenza dei mercati sono state, dunque, scientificamente eluse dai banchieri europei al solo fine, ovviamente, di aumentare i profitti, indipendentemente da un’analisi sui rischi di una simile operazione. Privatizzazione dei guadagni e socializzazione delle perdite: una ricetta ormai ben collaudata.

La Aig ha spiegato oggi di avere pubblicato la lista perchè consapevole «dell'importanza di mantenere un altro grado di trasparenza relativo all'uso di denaro pubblico». In realtà il colosso assicurativo, così come del resto la stessa Federal Reserve, aveva opposto notevole resistenza alle richieste iniziali del Congresso. La rivelazione dei beneficiari del denaro dato all'AIG avrebbe potuto, secondo i signori dell’impero monetarista americano «minare la fiducia nei mercati e ridurre la stabilità economica”. Questo perché la situazione è nei numeri così catastrofica che l’ultima cosa da fare è - secondo quelli che sono gli interessi dei banchieri - essere precisi ed onesti nella descrizione di quanto sta accadendo. Viceversa sarebbe necessario inculcare nelle masse un vuoto ottimismo ed incentivare i consumi. Insomma andare avanti come se nulla fosse accaduto. Così facendo, infatti, l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale verrebbe vagamente ritardato, concedendo il tempo e lo spazio necessario a chi questa situazione l’ha di fatto creata, di liberarsi di tutte le scomode situazioni pendenti. Sono persone che – si sa – non sono abituate a prendere.

L’economia capitalista è ciclica, comprende fasi di espansione e fasi di inevitabile contrazione. Essendo i mercati collegati da intricatissimi rapporti di debito e credito, l’instabilità, la sfiducia, i fallimenti, anche se dovuti a circostanze ed eventi verificatisi dall’altra parte del mondo, hanno ricadute ovunque. Questo ci dà la misura dell’importanza della pubblicazione della lista delle banche europee che hanno goduto dei finanziamenti pubblici varati dal Congresso americano. Molte istituzioni europee – quasi tutte le realtà finanziarie più rilevanti del vecchio continente – hanno, infatti, nella propria pancia titoli tossici oramai privi di alcun valore nominale. Montagne di carta straccia. Quello che stanno cercando di fare è di nascondere il più possibile la loro esposizione e al tempo stesso di estinguere questi toxic assets servendosi dei fiumi di carta verde immessi dalla Fed.

Se è vero, tuttavia, che le banche europee sono anch’esse portatrici sane (forse ancora per poco) del virus comparso oltre oceano, è vero anche che le banche dell’europa dell’est sono enormemente esposte nei confronti di queste. L’intera Europa, in definitiva, sta e cade insieme. Alla luce di ciò appare evidente come i criteri di Maastricht, in questa situazione, non siano altro che una ridicola tagliola ideologica che impedisce ai governi di mettere le pezze lì dove i banchieri hanno aperto voragini. Ma cosa sono questi criteri? Che cosa prevedono?

Essi sono stati specificati nel Protocollo sui criteri di convergenza di cui all'articolo 121 del TCE e riflettono il grado di convergenza economica che gli Stati membri devono raggiungere per poter introdurre l'euro. Sono le condizioni di adempimento per le quali uno Stato Membro aderisce all’euro e fa parte dell’Unione economica e monetaria. Una volta entrati a farne parte, i Paesi membri devono rimanere a galla e continuare a rispettarli, pena sanzioni. Un po’ come ordinare ad una persona di rimanere in forze in un periodo di carestia, pena l’ulteriore riduzione di cibo e acqua. Un suicidio.

Questi criteri sono stati stabiliti con il Trattato di Maastricht, sottoscritto il 7 febbraio 1992, in occasione dell’istituzione dell’Unione Economica e monetaria (Uem). In quell’occasione alcuni paesi decisero di adottare una moneta unica e di aprire i loro mercati per costituire una zona di libero scambio. Sono stati stabiliti affinché gli Stati europei diano prova di una certa disciplina di bilancio. Tra la fine degli anni Settanta e la firma del Trattato di Maastricht nel 1992, il debito dei paesi europei è infatti raddoppiato, portando all’aumento del Pil europeo dal 30 al 60%. Non potendosi attuare da sé sono state così stabilite, dai banchieri europei, regole comuni per garantire una sana disciplina di bilancio, indispensabile per la formazione di una moneta unica.

Il Trattato di Maastricht ritiene siano quattro i punti di convergenza per gli Stati che adottano una moneta unica: la stabilità dei prezzi, le finanze pubbliche, il tasso di scambio ed il tasso d’interesse a lungo termine.
Per adottare la moneta unica è necessario quindi che uno Stato garantisca 1) che il tasso d’inflazione non superi l’ 1,5% rispetto al risultato dei tre Stati membri che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi; 2) che il deficit pubblico non superari il 3% del Pil; 3) che il debito pubblico non superi il 60% del Pil. In caso contrario, tale rapporto deve essersi ridotto in misura sufficiente e deve avvicinarsi al valore di riferimento con ritmo adeguato (il nostro paese ha un debito pubblico pari al 104% del Pil). Lo Stato membro deve aver partecipato al meccanismo di scambio almeno due anni prima dell’effettiva messa in circolazione della moneta europea ed, in ultimo, il tasso d’interesse a lungo termine non deve superare il 2% rispetto ai risultati ottenuti dai tre Stati membri che hanno conseguito i migliori risultati in termini d’inflazione.

Dalla loro istituzione, questi criteri non hanno mai cessato di suscitare dibattiti sulla loro “applicabilità”. Rispettare i criteri di convergenza o favorire la crescita economica? Questo è stata la domanda che ha animato le discussioni fino a quando il giocattolo non si è rotto. L’Inghilterra e la Francia hanno per esempio, ottenuto nel 2005 un ammorbidimento delle regole del Patto di stabilità e di crescita, che proroga il termine per la riduzione dei deficit pubblici per i quali si erano impegnati in vista dell’adesione all’Uem: si sono appellati a dei “fattori applicabili” per valutare l’opportunità ed il progresso di una procedura per deficit eccessivo. Ora però il problema è diverso. I parametri previsti dal Trattato sono diventati lacci troppo stretti per i governi che devono fronteggiare le conseguenze della crisi in atto. Se la fiducia degli operatori nel mercato è irrimediabilmente compromessa, solo ora le famiglie iniziano a sperimentare sulla propria pelle gli effetti delle manovre speculative, ritrovandosi d’un tratto senza lavoro.

Siamo passati da una situazione dove il solo parlare di forti interventi, da parte degli Stati membri, nel mercato era considerata una bestemmia contro il dio del profitto individuale, ad una situazione dove una politica pubblica di rilancio è condizione necessaria per sperare in un futuro sostenibile. Purtroppo però ci sono i parametri stabili a tavolino da quel drappello di banchieri proprietari della BCE, che riducono drasticamente i margini di manovra. Dopo aver stabilito le regole che tutti gli Stati sono stati obbligati a sottoscrivere, dopo aver trovato loro stessi per primi i modi per aggirarle, esponendo il mercato europeo alle oscillazioni dei mercati americani, il governatore Trichet e i suoi tirapiedi continuano a battere i pugni sul tavolo, richiedendo il rispetto delle regole. Un atteggiamento degno del più lucido tra gli psicolabili. Adesso quelle stesse regole impediscono a chi quelle regole le ha subite di cercare di salvare il salvabile. In nome del dio denaro, del profitto indiscriminato, della privatizzazione dei guadagni hanno fatto ciò che hanno voluto. Il mistero della fede è che c’è ancora qualcuno che si ostina a credere alle loro prediche.