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di Ilvio Pannullo

È proprio il caso di dirlo: tutto scorre, tutto cambia nel Belpaese. Basta attendere il tempo necessario - spesso neanche troppo - per assistere ai cambiamenti più impensabili, cambi di strategia che generalmente maturano nel tempo, ma che in Italia si materializzano in pochi istanti. L’ultimo in ordine di tempo arriva da quel genio di coerenza politica che è Giulio Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze. D’un colpo, come un fulmine a ciel sereno, il Robin Hood dei ricchi stordisce quanti erano presenti al convegno, promosso dalla Bpm, sulla partecipazione dei lavoratori all'azionariato delle imprese, tornando ad elogiare il tanto vituperato posto fisso al punto da individuarlo come "la base della stabilità sociale".  Ad ascoltarlo tra i tanti erano presenti anche i segretari generali dei tre sindacati confederali: Cgil, Cisl e Uil.

"Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale". Parole che sembrerebbero uscite dalla bocca di qualche sindacalista. A pronunciarle in un pubblico dibattito è invece il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il discorso, ovviamente, assume un peso diverso.  Cambia al punto che si potrebbe gridare alla rivoluzione se non fossimo in Italia, un paese dove dal dopoguerra in poi le rivoluzioni non si sono mai fatte, ma sempre e solo annunciate. S’impone così una riflessione su quest’ennesimo annuncio dal retrogusto giacobino, un ragionamento che abbia come base la presa di coscienza dell’attuale natura schiavistica del mercato del lavoro.

Appare infatti paradossale che a pronunciare queste parole sia stato proprio quel Giulio Tremonti, titolare del dicastero dell’economia italiana in ogni legislatura del Polo prima e della Casa delle Libertà poi. Se tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi sono pochi, infatti, quelli che hanno potuto mantenere ruoli di rilevanza politica nel corso degli ultimi governi di destra, di certo uno di questi è proprio Tremonti. Presenza irrinunciabile per Berlusconi dal 1994 ad oggi, il divino Giulio ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Economia in ogni legislatura del Biscione, seguendo un percorso professionale difficile a causa di due dimissioni e dell’abbandono anticipato del ruolo in seguito alla crisi di governo nel 1996. Ciò nonostante si può certamente affermare che è stato uno dei primi responsabili dell’attuale situazione in cui versa l’economia italiana, avendo avuto la responsabilità di governare per quasi dieci degli ultimi 16 anni.

Anni in cui il mercato del lavoro è stato letteralmente sabotato in nome della flessibilità e della mobilità dei lavoratori. Il tutto per rendere - si diceva - più competitivo il paese. Peccato solo che alla flessibilità si sia sostituita la precarietà, il tutto realizzato sulla pelle dei lavoratori di colpo trasformati da esseri umani a capitale umano da gestire, con i soli bilanci dei padroni a trarne qualche giovamento. Quella flessibilità che, secondo il ministro, sarebbe figlia della globalizzazione che "non ha trasformato il quantum di lavoro ma la qualità di lavoro, passato da fisso a mobile. Era inevitabile - dice - fare diversamente". Un po’ come dire che lui, poverino, non poteva fare nulla di diverso da quello che fece. Dopotutto, allora, era solo il responsabile del ministero dell’Economia. Adesso, par di capire invece che le intenzioni sono cambiate e, con esse, anche le politiche che s’intende adottare per il futuro. Il tempo dell'elogio della mobilità e dell'esempio americano sembrano passati di moda. L’Italia che lavora ringrazia, nella speranza che il nuovo orientamento culturale descriva la sensibilità dell’intero governo e non magari la personalissima idea del ministro.

È un uomo misterioso Giulio Tremonti, imperscrutabile per via della sua capacità di dire tutto ed il contrario di tutto molto velocemente e senza temere alcuna smentita. Va detto che difficilmente lo si vede scendere in proclami accompagnati da logiche di plenario ottimismo; l’inderogabile attività economica e finanziaria lo pongono sopra le logiche mediatiche, aggrappandosi alla gravità di tecnicismi che lo trattengono scostato dagli assetti politici più attinenti al pubblico riscontro. Nonostante questo, data la lungimiranza espositiva di questi anni, perfino il poco telegenico immobilismo di Tremonti ha saputo adattarsi alle esigenze televisive, divenendo presenza frequente nei più noti salotti d’attualità politica.
Su tutti lo studio di Vespa, oramai divenuto esso stesso simulacro del potere. Ed è proprio attraverso i meccanismi mediatici che ha potuto affinare le tecniche di abbordaggio pubblico, dove le parole si frantumano in peso indifferenziato ma costante, ed i significati giungono sottoforma di percezione. Il ricordo di quanto si è fatto sfuma, perde d’importanza e lascia il posto ad un camaleontico personaggio privo della più elementare forma di coerenza.

Si compie così il miracolo. L’ideologo del condono edilizio permanente, l’autore di tre scudi fiscali, il sostenitore della privatizzazione delle coste per ragioni di cassa, l’importatore nostrano della finanza creativa anglo-americana, magicamente si trasforma nel paladino della costituzione repubblicana, arrivando a giudicarla "ancora valida", ma "non del tutto applicata". Secondo Tremonti, nella nascita della Costituzione c'era "il confronto fra le tre diverse culture chiave che animavano lo spirito di quel tempo: quella cattolica, quella comunista e quella liberale e la sintesi di queste diverse visioni sta nell'articolo sulla proprietà industriale. Quel passaggio - ha aggiunto il ministro - dove si dice che la Repubblica tutela, regola e disciplina il risparmio, identificando nell'industria del credito una realtà che favorisce l'accesso alla proprietà, all'azionariato popolare, ai grandi complessi produttivi del Paese, è fondamentale".

“Se la Costituzione diceva questo - ha continuato il ministro, senza il minimo accento autocritico - la sua applicazione e la legislazione hanno detto l'opposto. Si è organizzato per un decennio un sistema che in qualche modo ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli di debito. Giusto criterio per cui la grande proprietà industriale doveva essere in qualche modo controllata dal sistema bancario. Credo che un ritorno alla Costituzione - ha concluso - possa portare a concrete e non poche remote riflessioni".

Ovviamente non si è fatta aspettare la risposta dei sindacati. Luigi Angeletti, leader della Uil, ha chiosato l’intervento affermando: "Dalle cose che ha detto, è come se fosse un nostro iscritto”. Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, leader della Cisl: “Le parole di Tremonti sull'esigenza di avere posti di lavoro stabili sono sicuramente condivisibili. E' un obiettivo che inseguiamo anche noi”. Ne esce insomma un’immagine del ministro che da riciclatore di stato, agevolatore di evasori e fornitore di condoni ad ogni dove, si trasforma in sindacalista difensore dei lavoratori. Caustico, ma sempre meno di quanto occorrerebbe, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che alle affermazioni del ministro ha risposto seccamente: "Le farei commentare a Confindustria". Una nota di realismo in un paesaggio da favola.