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di Ilvio Pannullo

Il tempo è arrivato. Si sono aperte le danze e per noi è arrivato, purtroppo, il momento di salire sulla pista da ballo. Dopo la Grecia, che da tempo ha finito di ballare e che appare oramai sfiancata e prossima al collasso, dopo l’Irlanda e il Portogallo, che sono già da qualche mese in condizioni di difficoltà nel disperato tentativo di rinnovare il proprio debito pubblico, sembra sia infine giunto il nostro tempo.

La notizia è di quelle che passano in secondo piano. Non si parla del marciume che avviluppa il mondo del calcio, né del ciarpame senza pudore che allevia lo stress da lavoro del nostro infaticabile Governo. Si parla solo di economia pubblica, dunque poca cosa. In un periodo dove non si può parlare di riforme senza venire immediatamente fulminati dal timore per la “salute” del debito pubblico, una notizia entra ed esce dalla consapevolezza collettiva con una rapidità fulminante: le banche italiane sono state messe sotto osservazione dalle agenzie di rating.

Si teme per un declassamento che minerebbe la loro credibilità economica e che, come inevitabile conseguenza, trascinerebbe con sé un ripensamento dell’affidabilità del sistema italiano nel suo complesso. I falchi della speculazione sono già in volo, eppure ancora nulla si muove.

Accade così che l’agenzia di rating americana Moody's abbia messo sotto osservazione, per un possibile taglio, il rating di 16 istituti di credito italiani. Si tratta - scrive Moody's - di una misura conseguente all'annuncio dell'analoga mossa annunciata il 17 giugno scorso per il rating assegnato all'Italia. I rating dei 16 istituti messi sotto osservazione "sono sensibili anche a moderate variazioni dell'affidabilità creditizia del governo e della sua capacità di supportare le banche del Paese", spiega Moody's nel rapporto. Come a dire che le sorti dell’uno (il Governo) sono legate alle sorti dell’altro (il sistema bancario): simul stabunt simul cadent dicevano i latini.

Ed i nomi fanno impressione: gli istituti che rischiano il taglio sono la Cassa Depositi e Prestiti (!!), Intesa Sanpaolo, Banca Imi, Banca CR Firenze, Banca Monte dei Paschi di Siena, Mps Capital Services, Banco Popolare, Banca Nazionale del Lavoro, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Banca Popolare Friuladria, Banca Carige, Banca Sella Holding, Cassa di Risparmio di Bolzano-Sudtirol, Cassa di Risparmio di Cesena, Banca Padovana Credito Cooperativo, Cassa Centrale Banca, Cassa Centrale Raiffeisen,e l’ Istituto Servizi Mercato Agroalimentare.

Le banche il cui outlook (la previsione sul merito creditizio, ndr) diventa “negativo” sono invece Ubi, Credito Emiliano, Credito Valtellinese, Bancaperta, Banca delle Marche, Banca Italease, Banca Agrileasing, Banca Popolare Alto Adige, BancApulia, Banca Popolare di Cividale, Banca Tercas, Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti e Banca Popolare di Spoleto. Altre banche del Paese, tra cui anche Unicredit e Bpm, non sono state prese in considerazione nella nota - spiega Moody's - perché hanno già outlook negativo o sono già state messe sotto osservazione per un possibile taglio. Riassumendo, si potrebbe dire che la credibilità del sistema bancario italiano è dunque peggiore di quella del suo primo ministro. E non era facile arrivare a tanto.

L’Italia, che dal 2000 in poi sembra abbia registrato il peggior tasso di crescita del pianeta (con l’eccezione di Zimbabwe e Haiti) non perde infatti occasione per ridurre la sua velocità di marcia. In questa cupa cornice, nel quinto anno della Grande Crisi che ha preso il via nell’estate del 2007, non stupisce che l’Italia, al solito, faccia fatica a mantenere un’andatura di marcia appena accettabile. Dalla stima iniziale dell’1,1% di crescita per il 2011, siamo già scesi, secondo il Centro studi Confindustria allo 0,9%. Ma non si tratta di un rallentamento congiunturale, in sintonia con l’economia mondo: il Bel Paese si sta avvitando su se stesso, al punto che “in assenza di riforme strutturali” la crescita rischia addirittura di dimezzarsi a un modesto 0,6%.

Insomma, non basta la valvola di sfogo dell’export su cui fa conto l’industria italiana che trae profitto dalla corsa della locomotiva tedesca. Una gigantesca cappa d’incertezza, drogata dalla paura di possibili se non probabili “sberle” fiscali per tener fede alle promesse europee (altro che sgravi...), incide sui consumi delle famiglie, mentre i ritardi nei pagamenti, soprattutto sul fronte della Pubblica Amministrazione, frena, se non paralizza, buona parte della piccola industria a partire dall’edilizia. Così facendo, però, per paradosso si allontana l’aggancio con l’Europa.

Secondo i calcoli di Banca d’Italia, infatti, per rispettare senza particolari sacrifici l’appuntamento con il pareggio di bilancio nel 2014, sarebbe sufficiente che l’Italia crescesse al 2% annuo, cosa che richiede scelte in grado di “rafforzare la fiducia di famiglie e imprese e innalzare le rispettive propensioni a consumare e investire”. Ovvero, delle due l’una. O si investe in quelli che Confindustria chiama i “campi da dissodare” (semplificazione, realizzazione di opere pubbliche, liberalizzazioni e apertura del mercato in molti servizi, più formazione, efficienza della pubblica amministrazione, contrasto all’evasione, riforma fiscale) oppure in un futuro non tanto lontano sarà necessaria una riforma economica che gronderà lacrime e sangue, addirittura peggiore di quella varata del 1992 richiesta da Bruxelles per entrare nell’Unione Economica Monetaria.

Stavolta non prenderà, forse, la forma di un prelievo forzoso sui depositi bancari (“lo scippo”, come lo definì il suo autore Giuliano Amato), ma non si limiterà di sicuro a far pagare un piccolo prelievo forzoso ai proprietari di yacht, come lascia intendere oggi lo stesso Amato. O si guadagna di più, insomma, o sarà necessario pagare di più. Anche perché con i tempi che corrono non è sensato sperare in un consenso politico sull’unica riforma che potrebbe far tornare il Paese a crescere: un taglio strutturale della spesa pubblica. E allora prepariamoci a indossare l’elmetto.

Non ci vuole né un genio, né complessi modelli econometrici - tanto centrali nell’opera di indottrinamento delle grandi università d’economia dell’occidente civilizzato - per comprendere che l’Italia è il prossimo “pilastro” dell’area euro che potrebbe cadere sotto i colpi della speculazione. Questo perché, al solito, si preferiscono i quattrini facili che si fanno giocando contro i Buoni del Tesoro Pluriennali, piuttosto che il finanziamento dell’economia reale. Le ragioni? Oltre all’elevato debito pubblico e al basso tasso di crescita, a creare seri problemi al nostro paese è la scarsa solidità patrimoniale delle imprese: una nuova caduta delle quotazioni azionarie metterebbe a serio rischio una parte consistente del made in Italy che sta in piedi solo grazie al paracadute delle banche (a loro volta garantite da diritti reali di pegno costituiti sulle azioni delle società loro debitrici).

Non si tratta di fare inutile allarmismo. Ma la situazione è difficile. Di più: critica. E non se ne viene fuori se non si riscopre un obiettivo comune su cui far convergere un’ampia maggioranza d’interessi dei cittadini accantonando le questioni più futili. La politica urlata, da troppo tempo, nasconde il vuoto politico.