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di Ilvio Pannullo

La sentenza che i mercati attendevano da Francoforte è arrivata: la Banca centrale europea ha deciso di alzare di un quarto di punto il tasso di riferimento principale in Eurolandia, portandolo dall'1,25% all'1,50%. Il rialzo dei tassi è «reso necessario dai rischi in aumento per la stabilità dei prezzi» ha dichiarato il presidente della Bce Jean Claude Trichet. Visti dall'Eurotower i tassi erano troppo vicini al minimo storico dell'1% raggiunto nel 2009 e mantenuto per ben due anni.

È sicuramente vero che un costo del denaro così basso ha continuato a favorire le spinte inflattive, ma è altresì vero che ha consentito al sistema bancario di sopravvivere allo shock causato dalla crisi americana del 2008. Nell'area euro l'inflazione ha raggiunto così il 2,7%, un livello ben superiore al 2% che è il limite teorico che si è posta storicamente la Banca centrale europea. La svalutazione della moneta e la corsa dei prezzi sono infatti da considerarsi come elementi  pericolosi nell'orizzonte di un'eurozona minacciata da focolai di instabilità finanziaria da est a ovest.

Dall'altra parte anche il rialzo ha i suoi costi, anche se preferibili a un rialzo di tutto il paniere dei beni di consumo. Si tratta dunque di scelte politiche, che determinano le spalle su cui andranno a gravare maggiormente le problematiche che investono il nostro continente. Scelte - è bene ricordarlo sempre - prese unilateralmente dai banchieri e non discutibili in alcuna sede, sia politica che giudiziaria.

L'aumento dei tassi di scambio interbancario viene così scaricato sui consumatori, in maniera differente, con conseguenze dirette sui mutui delle famiglie e sui finanziamenti alle imprese. Misure che pesano in maniera ancora maggiore sui Paesi con una situazione debitoria grave. Non solo gli stati sul bordo del precipizio come Grecia e Portogallo, la cui crescita è vincolata alle imposizioni di Unione europea e Fondo monetario internazionale, ma anche per nazioni finanziariamente in bilico come la Spagna e che stanno vivendo una lunga stagnazione come l'Italia.

I maiali europei sono dunque pronti per il macello. Brucia la Grecia, brucia l’Irlanda, il Portogallo trema, mentre noi e gli spagnoli abbiamo lo stesso umore di quei maturandi che, dopo aver mancato di studiare per l’intero anno scolastico, contano i giorni mancanti al loro esame di Stato: si è fatto poco e presto toccherà rendere ragione dei propri comportamenti davanti ai professori banchieri di Francoforte. L’aria si fa ogni giorno più pesante e molte sono le persone convinte dell’inevitabilità di un collasso dell’intera eurozona. Ma non tutto è perduto: possiamo e dobbiamo reagire a quanto sta accadendo ed esistono i mezzi per far valere le ragioni della giustizia e della pace sociale.

Ma andiamo con ordine. Che è successo? Cosa sta accadendo sui mercati, ora che la crisi finanziaria si dice sia finita? La verità è che nessuna crisi nasce dal nulla e finisce nel nulla. Ci sono sempre delle cause, dei moventi, degli interessi che generano i problemi. Se questi non vengono risolti è inutile sperare in un miglioramento della situazione e, per tornare a noi, nulla di quello che andava fatto è stato fatto.

La crisi greca rappresenta in modo impietoso come il sistema finanziario, di fatto, governi ormai l’Unione Europea mediante le sue propaggini operative: la Commissione europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale  Europea. I governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo l'esplosione della crisi nell'autunno del 2008, quando, con le parole del ministro tedesco dell'economia di allora, Peer Steinbruck, «abbiamo visto il fondo dell'abisso». È vero che a Bruxelles si discute da due anni di riforme finanziarie, ma dinanzi alla natura e alle dimensioni del problema si tratta del solito secchiello per vuotare il mare.

Non avendo riformato il sistema finanziario, ed avendolo anzi aiutato a diventare più potente di prima, i governi europei si trovano ora esposti alle sue pretese. Giusto com’è avvenuto negli Stati Uniti. Al momento il sistema pretende che siano salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che nei prossimi mesi potrebbero riguardare il Portogallo, la Spagna, l'Italia. Fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti che non vedono alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno - quali sono la Commissione Europea, la Bce e l'Fmi - i governi dell’Unione sono unanimi nell'esigere dalla Grecia di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. Ha vissuto al disopra dei suoi mezzi, affermano, e ora deve imboccare un severo percorso di austerità.

Da cosa sia formato ed in cosa consista tale percorso lo sanno tutti, anche perché è lo stesso che quasi tutti i governi europei, compreso quello italiano, stanno proponendo ai loro cittadini: tagliare i salari, le pensioni, la sanità, la scuola; privatizzare tutto, i trasporti, i servizi collettivi, le isole, i porti, le spiagge e, perché no, il Partenone, il Colosseo e la Sagrada Familia.

Bisogna capire che quanto accade oggi in Grecia, accadrà presto in Italia: la Grecia non è il nostro futuro, è il nostro domani mattina. Quanto sta avvenendo altro non è se non un grande esperimento. Se funziona in Grecia il modello sarà esportato ovunque. Non è dunque questione di fraternità o solidarietà, si tratta di noi, della nostra vita, della nostra futura sopravvivenza. La logica di Francoforte è infatti entrata in piena  collisione con il patto sociale che ha retto fino ad oggi la possibile creazione politica del nostro continente. Adesso sono i popoli a essere entrati in conflitto con le banche.

Ciò che nella sostanza si afferma e che viene veicolato dall’intero mainstream televisivo, con ossessiva volgarità, ci spinge a credere che i popoli - alcuni popoli - non siano capaci di vivere in questo sistema, dove tutto appare calcolato salvo poi non funzionare nulla. Il popolo portoghese, irlandese, italiano, quello greco, quello spagnolo hanno la grande colpa di aver speso troppo, di non essere stati capaci di gestire le proprie società. Adesso devono quindi pagare e poi si penserà a privatizzare tutto.

Quello a cui stiamo assistendo è dunque un ricatto: la sopravvivenza in cambio della cessione a tempo illimitato della propria sovranità. Siamo quindi ad una svolta, un passaggio che sarà ricordato nei decenni che seguiranno. Se cediamo, cederemo tutti insieme e cederemo tutto quanto abbiamo da cedere.