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di Emanuele Vandac

La storia recente delle agenzie di rating è costellata di episodi che dimostrano crassa incapacità di far di conto (indimenticabile quello di Standards & Poor's, che giustificò il declassamento del merito di credito degli USA in base a calcoli errati per “soli” 2.000 miliardi di dollari). La loro credibilità ormai dovrebbe essere vicina allo zero, se si considerano i sesquipedali conflitti di interesse in cui operano: non solo, infatti, sono enti di lucro privatistici, ma sono anche controllate dagli speculatori che dovrebbero valutare, mentre le fee sulle stime sono la loro fonte di reddito, cosa che le ha spinte non di rado ad essere di manica troppo larga (Lehman Brothers, Bear Stearns, Fanny Mae e Freddy Mac, Enron e Parmalat).

Questo per non parlare della imperdonabile sciatteria di cui hanno dato prova in qualche caso, come ad esempio quando a novembre, a causa di un errore tecnico, il sito di Standards & Poor's sembrava annunciare il downgrade del debito sovrano francese. Dopo il declassamento della Repubblica italiana, cui venerdì Standards & Poor’s ha abbassato “i voti in pagella” fino a BBB+, è evidente pure che esse sono talmente asservite agli interessi della grande speculazione made in USA da essere diventate una barzelletta. Per parlar chiaro, l’ultima mossa di S&P, che porta il merito di credito dell’Italia pericolosamente vicino al discrimen rerum tra investment grade e “junk” (spazzatura), è una vigliaccata degna di una gang di quartiere come se ne vedono nei film di serie B.

“In un certo senso [il downgrade] è incoerente ed è una valutazione condivisa da parte dei mercati da quello che ho potuto vedere finora", protesta giustamente Maria Cannata, direttrice generale del Tesoro per la gestione del debito pubblico. Non è coerente, certo, se si segue una logica improntata al buon senso e all’onestà intellettuale. Ma è molto coerente con gli interessi delle banche e dei fondi che hanno avviato e mantenuto alta la pressione su una falsa crisi dell’euro che ha il chiaro obiettivo di ridimensionare e normalizzare il sistema culturale e sociale europeo.

Colpevole, secondo gli ispiratori dell'operazione, di un atteggiamento leggermente meno prono all’idolatria mercatista made in USA. Ridurre ogni cosa a merce, scardinare il welfare, creando nel contempo occasioni ghiotte per i capitani coraggiosi solo a parole, campioni nell’arte della privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. Un'orgia sconsiderata a chi arraffa di più, talmente truculenta e cinica da perdere il consenso perfino degli ambienti politici più liberisti, di destra come di sinistra.

Come noto, nel 2012 l’Italia dovrà lanciare emissioni di titoli per ben 440 miliardi di euro. Per il solo rifinanziamento del debito in scadenza, come ricordano le impietose tabelle del Bollettino trimestrale del Ministero del Tesoro, il prossimo febbraio occorrerà sostituire oltre 53 miliardi di debito da rimborsare; il conto di marzo è un po’ più basso (“solo” 45 miliardi), mentre ad aprile si dovranno piazzare altri 36 miliardi. Circa 135 miliardi di euro in tre mesi: solo una volta passato marzo senza gravi traumi si potrà (forse) dire che l'Italia ce l'ha fatta.

La già infelice situazione è aggravata dal fatto che, di questo immenso fabbisogno, oltre il 40% (56 miliardi) è costituito da BTP, ovvero da titoli con scadenze pluriennali (tra i 3 e i 30 anni): non è difficile comprendere che, in un contesto di grave incertezza, i titoli pluriennali di un emittente che per una serie di ragioni (alcune fondate, molte francamente speciose) viene percepito dai mercati come traballante non vanno esattamente a ruba.

La bellezza della finanza è proprio questa: come in un mercato del pesce della periferia dell’impero, gli investitori fanno a gara a disprezzare la merce che però intendono portare a casa. Alla fine della sceneggiata, molto probabilmente i titoli verranno comprati, ma ad un prezzo molto basso. Ora, se un titolo a reddito fisso viene collocato sul mercato ad un prezzo inferiore a 100 (o sotto la pari, come anche si dice), vorrà dire che la cedola (fissa) avrà un valore più alto di quello nominale. Gli speculatori saranno contenti, dato che con questo giochino si saranno messi in portafoglio un titolo redditizio, mentre gli italiani onesti, già tartassati da una pressione fiscale degna di un paese scandinavo e da interventi punitivi casuali, pagheranno il conto per tutti.

Orbene: in quale momento Standards & Poor’s decide di menare il suo colpo sotto la cintura all'Italia (anche se per la verità il declassamento ha riguardato anche altri paesi europei, come Francia, Austria, Spagna e Portogallo)? Giusto qualche giorno prima dell'inizio del trimestre “nero” del rifinanziamento del debito pubblico, saturo di titoli lunghi in scadenza. Non sbaglia, per una volta, l’Osservatore Romano, che si spinge a definire “sospetta” la tempistica di S&P's. Contro l’impudenza di Standards’ and Poor’s tuonano anche rappresentanti eminenti del jet set aduso alla frequentazione delle stanze dei bottoni, da Prodi (“le agenzie di rating hanno interessi precisi e competenze parziali”) a Guido Roberto Vitale, Presidente della Vitale & Associati, società di consulenza specializzata nell’advisory sull’investment banking.

Vitale, intervistato da Fabrizio Massaro del Corriere della Sera, è un fiume in piena: con un'enfasi non comune nel suo ambiente, parla di “terza guerra mondiale”, scatenata da ambienti di destra americani, che vedono come il fumo negli occhi la formazione di un centro di potere europeo in grado di bilanciare l'egemonia USA. Secondo Vitale, questa “guerra” finanziaria lanciata da oltreoceano contro l’Europa è una gran perdita di tempo: più opportuno, dice il finanziere, sarebbe che USA e Europa collaborassero facendo fronte comune contro il rischio rappresentato da  India e Cina, le cui giuste aspirazioni allo sviluppo costituirebbero un rischio per i paesi occidentali.

Lo stato del capitalismo moderno è di tale confusione che capita perfino di sentire un uomo di mercato come Vitale tessere le lodi dello statalismo comunista: “I cinesi, che sono intelligenti e lungimiranti, per prima cosa si sono creati una loro agenzia di rating [la Dagong, fondata nel 1994 Ndr]. […]. Un funzionario che vende rating [infatti] non deve pensare al bonus, come invece avviene con S&P, Moody' s e Fitch”.

Ed in effetti, la creazione di un’agenzia di rating europea di diritto pubblico risolverebbe almeno il problema della terzietà del valutante rispetto al valutato. Oggi infatti, la situazione, come riassunta da Il Sole 24Ore è simile a quella di una scuola dove “gli studenti fossero i proprietari […] e decidessero quali stipendi assegnare agli insegnanti”. Basti pensare che i principali azionisti di Moody’s sono Warren Buffet e il fondo USA Capital World Investors e che quest'ultimo è pure il primo azionista di Standards & Poor’s. Quanto a Fitch, è essa controllata al 60% dalla società di investimento francese Fimalac, mentre il resto delle azioni è in mano al gruppo editoriale Hearst.

Anche se per un problema chiuso, ne sorgerebbero altri nuovi; per esempio, non si sarebbe mai certi che le valutazioni fossero del tutto immuni da considerazioni politiche. Inoltre, non è detto che l'interesse dello Stato sia per forza quello dei popoli: a meno che non si voglia credere che i funzionari del Partito Comunista cinese, che controllano le nomine della Dagong, possano e vogliano tutelare i diritti dei loro sudditi più di quanto non faccia un manipolo di banche d’affari e/o gruppi di investitori americani che in Occidente fanno, loro pure, il buono e il cattivo tempo.