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di Carlo Musilli

Nessuno la nomina, ma tutti ne parlano. Le parole "bad bank" non compaiono in documenti ufficiali e raramente vengono pronunciate, eppure il tema è al centro di un negoziato in corso da mesi fra Roma e Bruxelles. Il Tesoro vorrebbe creare un veicolo di matrice pubblica in cui far confluire parte delle sofferenze bancarie italiane, ovvero i crediti che probabilmente non saranno mai restituiti a causa delle difficoltà in cui versano i debitori. Oggi è in questa condizione circa il 10% del totale dei prestiti: una quota altissima, che spinge le banche a limitare ulteriormente il credito.

La bad bank sarebbe quindi "cattiva" per il contenuto, ma rappresenterebbe la manna dal cielo per gli altri istituti, perché consentirebbe loro di pulire i bilanci velocemente e a costo zero, liberando risorse per l'economia reale (ma solo in teoria, perché quei soldi potrebbero tranquillamente essere usati dalle banche anche per speculare sui mercati finanziari).

Nella sua recente apparizione alla Borsa Italiana, il premier Matteo Renzi ha detto che la costituzione di questo nuovo strumento è "una priorità assoluta". Perché allora tante esitazioni? L'ostacolo principale che fin qui ha impedito la realizzazione del progetto è di natura giuridica: se messa in pratica tout court, la bad bank si configura come un aiuto di Stato ed è quindi proibita dalle norme comunitarie.

Per quanto riguarda la trattativa in corso, da Via XX Settembre arrivano segnali d'insofferenza: "Bisogna fare presto, prima finiamo e meglio è", ha detto al termine dell'Ecofin della scorsa settimana il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, che in precedenza aveva definito "negativo l’atteggiamento tecnico dei servizi della Commissione". La direzione generale sulla Concorrenza dell'Esecutivo comunitario ha bocciato anche l'ultimo progetto del Tesoro, che prevedeva una garanzia pubblica per favorire la creazione di un mercato su cui vendere i crediti in sofferenza.

D'altra parte, sembra che il dissidio da risolvere sia tutto interno a Bruxelles, combattuta fra l'esigenza tecnica di non violare le sue stesse regole e il desiderio politico di aiutare le banche. Dopo aver bollato ogni ipotesi d'intervento come aiuto di Stato illegittimo, infatti, la stessa Commissione ha chiesto a Roma di adottare misure che favoriscano "una riduzione dei prestiti deteriorati delle banche", come si legge nelle raccomandazioni all'Italia contenute nel rapporto semestrale sugli squilibri macroeconomici. Le due parole magiche non compaiono, ma è evidente che lo strumento principe per ottenere il risultato chiesto da Bruxelles è proprio la bad bank.

Sulla stessa linea anche Mario Draghi, che a fine marzo ha lanciato un messaggio chiaro al governo Renzi, pur rispettando il tabù: "Condizione indispensabile perché i capitali arrivino alle imprese - ha detto nel corso di un'audizione a Montecitorio, la prima da quando è diventato presidente della Bce - è avere un settore bancario sano. I prestiti deteriorati devono emergere rapidamente e devono essere adottate misure per risolvere il problema. La Bce guarda con molto favore alle iniziative che alleggeriscono i bilanci delle banche dalle sofferenze, liberando risorse a favore delle imprese".

Pochi giorni prima, durante un convegno all'Accademia dei Lincei, Ignazio Visco era stato ancora più esplicito. Secondo il governatore di Bankitalia, per affrontare il problema delle sofferenze bancarie è opportuno "un intervento diretto dello Stato che, nel rispetto della disciplina europea sulla concorrenza, favorisca lo sviluppo di un mercato secondario di queste attività", contribuendo "a liberare risorse di cui beneficerebbero in primo luogo le imprese".

E mercoledì scorso Via Nazionale ha affidato al Boston Consulting Group un servizio di consulenza da 379.500 euro (Iva esclusa) proprio per la creazione della bad bank. L’appalto è stato affidato senza gara, "con procedura negoziata per l’urgenza che caratterizza la definizione del progetto", spiega l’istituto centrale.

Tutto questo con un unico obiettivo finale, ovvero dare continuità al principio che regola il rapporto Stati-banche almeno dal 2008: finché gli affari vanno bene, i profitti rimangono in pancia alle aziende; non appena il vento cambia, viene coinvolto tutto il Paese. L'idea stessa di una bad bank pubblica è l'ultimo prodotto di questa filosofia che impone di privatizzare gli utili e socializzare le perdite.