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di Carlo Musilli

Invece dell'accordo si avvicina la bancarotta. Dopo mesi di trattative il tempo è quasi scaduto, ma l'intesa fra i creditori internazionali e la Grecia non sembra ancora a portata di mano. Da Atene, intanto, arrivano segnali contrastanti. Ieri  Syriza ha respinto la richiesta dell'ala estremista del partito di non rimborsare i prestiti al Fondo monetario internazionale (95 voti contro 75). Bocciate anche le proposte di nazionalizzare le banche e d'indire un referendum sull'intesa da siglare con Ue e Fmi.

"La Grecia e i suoi creditori hanno una necessità imperativa di raggiungere un accordo il prima possibile", ha detto il portavoce del Governo, Gabriel Sakellaridis, aggiungendo che l'Esecutivo punta a raggiungere un'intesa entro l'inizio di giugno: "Finché saremo nella posizione di pagare i nostri impegni, li pagheremo. E' responsabilità del governo fare fronte ai propri obblighi".

L'esecutivo di Alexis Tsipras cerca così di allentare la tensione causata dal ministro dell'Interno, Nikos Voutsis, che domenica aveva lanciato un avvertimento chiaro: "Le quattro rate in scadenza fra il 5 e il 19 giugno con il Fmi ammontano a un miliardo e 600 milioni di euro: denaro che non sarà versato, perché non lo abbiamo".

Voutsis ha anche sottolineato che che Ue e Fmi pongono "condizioni inaccettabili" in cambio dello sblocco degli aiuti. Il governo di Atene non vuole cedere in particolare sulle pensioni e sul ripristino dei contratti collettivi di lavoro, due capitoli su cui Angela Merkel si è dimostrata più rigida che in passato durante l’ultimo vertice europeo di Riga. A questo punto la palla passa al G7, che si riunirà giovedì e venerdì a Dresda.

Il summit in Germania sarà probabilmente l'ultima occasione per sbloccare lo stallo, ma anche un accordo in extremis non sarebbe una soluzione definitiva. Una svolta positiva del negoziato consentirebbe ad Atene d'incassare la tranche da 7,2 miliardi concordata a febbraio, ma quei soldi durerebbero poco, considerando che il Paese ha bisogno di circa 30 miliardi solo per non alzare bandiera bianca prima dell'autunno.

Come vuole il copione degli ultimi anni, l'unica possibilità offerta alla Grecia è di guadagnare tempo. Si chiude una trattativa solo per aprirne un'altra, senza contare che stavolta un ennesimo pacchetto di aiuti rischierebbe di non ottenere il via libera di alcuni parlamenti nazionali, Bundestag in testa. Intanto, il debito pubblico ellenico continua a crescere, i nuovi prestiti vengono usati in massima parte per rimborsare i vecchi crediti e l'economia reale non riparte, ostaggio di un circolo vizioso potenzialmente infinito.

Si torna così a parlare del possibile Grexit, che secondo il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, sarebbe "un avvenimento catastrofico, l’inizio della fine dell’euro". In verità, sul destino della Grecia dopo un'eventuale uscita dalla moneta unica esistono solo ipotesi di scuola più o meno accreditate. Non ci sono precedenti, perciò chi sostiene di avere delle certezze mente o è in malafede.

Dopo l'addio all'Eurozona, teoricamente, la Grecia dovrebbe arginare la fuga dei capitali, nazionalizzare le banche, battere moneta e far decollare l’inflazione per finanziarsi, dal momento che il mercato dei capitali sarebbe precluso anche per i prestiti a breve termine. I tassi d’interesse subirebbero un'impennata e la riedizione della dracma sarebbe colpita da una svalutazione feroce, mentre i debiti privati potrebbero continuare a essere denominati in euro. I soli benefici immediati sarebbero per l'export, che però in Grecia ha un peso limitato e difficilmente sarebbe in grado di trainare una ripresa.

Il Grexit non è però una conseguenza immediata e necessaria della bancarotta. Atene potrebbe dichiararsi insolvente ma rimanere nell'euro, secondo alcuni emettendo una moneta parallela ad uso interno, ovvero per pagare stipendi pubblici e pensioni.

Questa strada sarebbe tuttavia una sconfitta per l'Europa sia sul piano politico che su quello economico: in primo luogo perché si dimostrerebbe che l'Ue, nel momento della crisi, non è capace di proteggere nemmeno il più piccolo dei suoi figli, in secondo luogo perché - dopo l'haircut del 2012 a danno degli investitori privati - stavolta la perdita ricadrebbe sui contribuenti europei, visto che negli ultimi anni il peso del debito ellenico si è spostato dagli istituti di credito agli Stati dell'Unione.

Inoltre, un eventuale default dello Stato greco segnerebbe probabilmente anche la fine delle banche del Paese, perché la Bce dovrebbe chiudere il rubinetto degli aiuti d’emergenza Ela, privando il sistema creditizio ellenico di un sostegno finanziario vitale. A quel punto, Atene potrebbe dover negoziare l'ennesimo piano d’aiuti internazionali, che in circostanze simili sarebbero impossibili da ricevere a meno di non lasciare carta bianca alla Troika. E si ricomincerebbe daccapo.