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di Carlo Musilli

Dallo scorso 4 maggio migliaia di donne italiane possono richiedere all’Inps il “bonus mamma domani”, la misura per la famiglia più attesa fra quelle varate con l’ultima legge di Bilancio. Il suo nome tecnico è “premio alla nascita” e nei mesi scorsi è stato presentato come un’arma per combattere il calo demografico. In realtà, si tratta di un’aberrazione sociale che dimostra quanto un malinteso principio di uguaglianza possa rivelarsi fonte d’ingiustizia.

Il bonus consiste in 800 euro che le future madri ricevono una volta concluso il settimo mese di gravidanza oppure al momento dell’adozione. Il denaro si riceve dall’Inps in un’unica soluzione e non viene conteggiato ai fini Irpef. Tutto qui. Manca qualcosa, vero? Già, manca il tetto di reddito: non è prevista alcuna soglia di ricchezza oltre la quale non si abbia diritto al bonus.

In altri termini, la “mamma domani” può essere chiunque: una notaia, una gioielliera, un’amministratrice delegata o un’agente di Borsa. Non fa alcuna differenza se lo stipendio è alto o la parcella salata: anche le donne benestanti, ricche o ricchissime hanno diritto a questi 800 euro se sono incinte o adottano un bambino.

In questo modo una misura di welfare in teoria lodevole si trasforma in uno strumento di ingiustizia sociale. Che senso ha spendere soldi pubblici per aiutare chi non ha alcun bisogno di essere aiutato?

Secondo un rapporto Istat di metà aprile, sono più di 8 milioni gli italiani poveri e di questi circa 4 milioni e mezzo si trovano  in condizioni di povertà assoluta, cioè non riescono ad acquistare il minimo indispensabile per vivere. Non sarebbe il caso di concentrare su di loro le risorse che lo Stato può destinare al welfare?

Può sembrare demagogia, ma la questione è più che mai pratica. Per il bonus mamma domani il governo Renzi ha stanziato nel bilancio di quest’anno 392 milioni di euro, parte dei quali andranno su conti corrente già gonfi. È chiaro che la cifra in gioco – quand’anche fosse dirottata su progetti più utili – non risolverebbe il problema della povertà in Italia. Ed è ovvio anche che molte donne in condizioni di necessità otterranno un aiuto concreto dalla nuova agevolazione. Ma il punto è un altro e riguarda il metodo con cui il nostro paese spende le risorse che ha a disposizione.

Con Bruxelles che vigila su ogni decimale dei conti pubblici, l’Italia prima combatte per ottenere flessibilità, poi la spreca. Usa i soldi in più per finanziare (in deficit) misure ispirate dalla speranza di un tornaconto elettorale piuttosto che dalla preoccupazione per le condizioni socioeconomiche del paese.

In tre anni di governo Renzi più cinque mesi di governo Gentiloni l’Italia ha speso/stanziato 50 miliardi di euro in bonus. Una cifra che fa impressione alla luce degli scarsi risultati prodotti, visto che l’anno scorso il Pil è cresciuto dello 0,9% e quest’anno non dovrebbe andare oltre l’1%, quasi la metà della media Ue.

Certo, non abbiamo la controprova di come sarebbe andata senza questo oceano di bonus, né ha senso cercare di immaginare cosa avremmo potuto fare di meglio con quei 50 miliardi se li avessimo destinati a investimenti produttivi. Tuttavia, è il caso perlomeno di mettere in discussione la logica che sta a monte della maggior parte di questi bonus, ossia la loro distribuzione a pioggia, senza criteri economici né priorità sociali. E con una visione prospettica che non va mai oltre le scadenze elettorali.