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È sembrato a molti un elenco di sogni, ma quelle di Jean Claude Juncker erano proposte serie. Nel suo discorso sullo stato dell'Unione, il presidente della Commissione europea ha (ri)lanciato sul tavolo dell’Europarlamento una serie di idee vecchie e nuove per riformare l’Ue.



La prima è quella di un ministro delle Finanze dell’Eurozona, che dovrebbe essere allo stesso tempo anche vicepresidente della Commissione e presidente dell’Eurogruppo, rispondendo del proprio operato all’Europarlamento.  Nelle intenzioni di Juncker, questo super-ministro comanderebbe il Fondo salva stati (Esm), che nel frattempo verrebbe trasformato in Fondo monetario europeo, con una potenza di fuoco di 500 miliardi di euro. Fondi che servirebbero a finanziare riforme e investimenti nazionali, oltre che ad aiutare i governi nei tempi di crisi.

Non solo: il numero uno della Commissione ha parlato anche di portare a maggioranza le materie su cui oggi a Bruxelles si può decidere solo all’unanimità, come politica estera, difesa, fisco, antiterrorismo e giustizia.

Ora, quante possibilità hanno queste proposte di trasformarsi in realtà? Poche. Perlomeno con le caratteristiche immaginate da Juncker.

La cancelliera tedesca Angela Merkel è d’accordo sui primi due punti, ma vorrebbe che il Fondo (presumibilmente dominato dai Paesi-azionisti) avesse il potere di controllare i bilanci degli Stati e di sanzionare chi sgarra sui conti. Una prerogativa che invece Juncker vuole attribuire (in forma ammorbidita, politica) al super-ministro, per evitare che i governi dei principali Paesi si sostituiscano a Bruxelles nel ruolo di sceriffo dei bilanci. In questi termini, però, lo stesso super-ministro diventerebbe una figura in grado di oscurare i leader politici. Difficile che governanti e capi di Stato lo accettino.

D’altra parte, le diverse posizioni su questo tema nascondono divergenze ben più profonde sull’assetto che l’Europa dovrà assumere nei prossimi anni.

Juncker vuole un’Unione il più possibile compatta: 27 Paesi che, dopo Brexit, siano in grado di procedere insieme. Tutti in Schengen e magari, in futuro, tutti nell’euro. Una visione che punta a mantenere le istituzioni comunitarie al centro della costruzione europea.

Il problema è che, per realizzarla, il presidente della Commissione dovrebbe convincere i Paesi dell’Est ad abbandonare la politica dei veti e del sovranismo. E purtroppo, al momento, l’idea che Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia accettino all’unanimità di rinunciare al proprio diritto di veto sembra fantascienza.

Juncker conta di avere la meglio sventolando sotto il loro naso i soldi del Fondo monetario europeo. In sostanza, vorrebbe comprarli. È improbabile che le risorse finanziarie bastino per un’impresa del genere, ma anche se così fosse si rischierebbe di ripetere un errore del passato. Quello commesso in occasione dell’allargamento dell’Ue a questi Paesi, dove le opinioni pubbliche furono accecate dai vantaggi economici connessi all’adesione e non compresero a pieno tutti gli obblighi a cui andavano incontro.

Sul versante opposto a Juncker, Merkel e Macron intendono costruire un’Europa a due velocità, un progetto delineato fin dal vertice di marzo a Roma, con il consenso dell’Italia. Significa che un gruppo di Paesi sarebbe libero di proseguire lungo la strada dell’integrazione, permettendo agli altri di decidere se e quando aggregarsi. In altri termini, Berlino, Parigi e Roma andrebbero avanti con chi ci sta, lasciando gli altri indietro.

Un disegno assai più pragmatico di quello proposto dal numero uno della Commissione, anche perché dopo Brexit è chiaro a tutti che trascinare chi rema sempre contro vuol dire solo perdere tempo. Ma anche su questo fronte il pericolo è in agguato.

In una Ue a due marce, il gruppo di Paesi più “veloce” sarebbe certamente dominato dalla diarchia franco-tedesca. E Bruxelles finirebbe per avere un ruolo marginale, diventando poco più di una segreteria dove si mette il timbro a decisioni prese altrove. Con tanti saluti al super-ministro unificatore sognato da Juncker.