Stampa

Nella polemica con la Ue sulla manovra, Matteo Salvini e Luigi Di Maio non cercano in alcun modo rientrare nel solco della diplomazia. Al contrario, incattiviscono ogni giorno gli attacchi contro Juncker & Co, lasciandosi andare anche al dileggio più triviale (“parlo solo con gente sobria”, ha detto il vicepremier leghista in riferimento al presidente della Commissione europea, accusato di essere un ubriacone). Ma perché si è arrivati a tanto?

 

 

La strategia dei due vicepremier sembra avere un duplice scopo. Innanzitutto, lo scontro con Bruxelles è la più potente arma propagandistica nelle mani di Lega e M5S in vista delle europee di maggio. I due partiti di governo puntano tutto sul dopo elezioni, scommettendo che il voto stravolgerà gli equilibri nell’Europarlamento e consegnerà ai sovranisti – alleati con il Ppe – le redini dell’Unione. Salvini sogna di piazzare su poltrone importanti quattro commissari euroscettici, di cui uno leghista e altri tre provenienti da Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca.

 

In secondo luogo, l’artiglieria verbale che i gialloverdi sganciano quotidianamente sull’Europa viene impiegata come arma di distrazione. Le schermaglie con Bruxelles distolgono l’opinione pubblica dal fatto che con la manovra il Governo sta combinando disastri su due fronti: viene meno alle promesse scritte nel contratto e al tempo stesso espone il paese al tiro a segno dei mercati.

 

L’accordo di governo prevedeva misure per un costo totale di circa 125 miliardi, che ovviamente rimarranno nel mondo dei sogni. La flat tax originaria, quella a due aliquote (15 e 20%), si è ridotta all’estensione degli sgravi fiscali previsti per le partite Iva più piccole. La dotazione del reddito di cittadinanza, invece, si è praticamente dimezzata nel passaggio dalla fantasia alla realtà (da 17 a 8-10 miliardi), il che implica una forte riduzione della platea dei beneficiari.

 

Ma non è finita: per finanziare questi interventi – anche nelle versioni depotenziati – non basterà nemmeno l’extra-gettito garantito dall’aumento del deficit/Pil 2019 al 2,4%. Serviranno anche aumenti delle tasse e tagli di spesa, a cominciare da quelli già previsti per scuola e università: il ministero dell’Istruzione ha calcolato una perdita di 100 milioni di euro, di cui 65 arriveranno dal ridimensionamento dell’alternanza scuola lavoro e 35 da fondi non spesi.

 

Tutto questo per ottenere cosa? Un impatto minimo sull’economia reale e un potenziale disastro sui mercati finanziari, dove i rendimenti dei Btp a 10 anni sono già ai massimi dal 2014 e lo spread è in continua ascesa. L’Italia deve rifinanziare un debito da oltre 2.300 miliardi di euro e la fiducia degli investitori nei confronti di questo governo è sempre più bassa. Non è servita a niente nemmeno la revisione in extremis dei target di deficit per il 2020 e il 2021 dal 2,4% su entrambi gli anni al 2,1% e all’1,8%.

 

Il sospetto, sui mercati come a Bruxelles, è che i conti della manovra non tornino. Secondo vari osservatori, il Governo italiano avrebbe inserito nel Def alcuni trucchi contabili per tenere in piedi le promesse di abbattere il debito di quattro punti percentuali in tre anni e di ridurre progressivamente il deficit.

 

Le furbate sarebbero tre: crescita sovrastimata del Pil 2019 (+1,5%), 2020 (+1,6%) e 2021 (+1,1%), in modo da alzare il denominatore e ridurre i rapporti deficit/Pil e debito/Pil; cancellazione delle clausole Iva solo per l’anno prossimo (gli stanziamenti per 2020 e 2021 vengono rinviati a provvedimenti successivi); una stima altissima (e inverosimile) del gettito garantito dalle privatizzazioni: 10 miliardi nel biennio 2019-2020.

 

Di fronte a timori del genere, la fuga degli investitori è inevitabile e sappiamo già quali saranno le conseguenze. L’aumento dei tassi e dello spread si rifletterà sul costo di finanziamento per le banche, che a loro volta ridurranno il credito a famiglie e aziende, rallentando l’economia del Paese. Ma tutto questo, per fortuna di Lega e M5S, non farà in tempo a realizzarsi prima delle elezioni di maggio.