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L’avvio del Recovery Fund rischia di slittare a settembre, ma a Bruxelles, per il momento, ostentano sicurezza. “Siamo pronti a mettere in moto la macchina entro giugno - ha detto la settimana scorsa il commissario europeo al Bilancio, Johannes Hahn - e siamo fiduciosi di poter versare i primi fondi, il 13% per ogni Paese, entro luglio”. Il problema è che, per rispettare questi tempi, i 27 parlamenti nazionali dell’Unione dovrebbero ratificare il piano entro maggio e i via libera mancanti sono ancora 10, compresi quelli di alcuni Paesi dell’Est in cui la situazione è piuttosto complicata.

A suscitare le maggiori preoccupazioni è la Polonia, dove il governo Morawiecki non ha più la maggioranza. “Solidarietà polacca”, partito di ultradestra, ha già detto che non voterà la ratifica “per non avviare l’europeizzazione del debito”.

 

Obiezione ridicola quant’altre mai, visto che Varsavia con i Frugali non ha nulla a che vedere ed è anzi tra i maggiori beneficiari del piano di rilancio, da cui riceverà 57 miliardi. Senza l’appoggio della destra, comunque, l’esecutivo ha bisogno dell’opposizione, che all’inizio si era detta disponibile, ma ora inizia a ripensarci. Il pericolo è che alla fine ceda alla tentazione di far cadere il governo, bloccando il Recovery in tutta Europa.  

Rischio alto anche in Romania, dove il via libera deve arrivare da almeno due terzi del Parlamento, una maggioranza trasversale che per ora non c’è. Il governo di centrodestra guidato da Florin Citu, infatti, non può contare sui voti del Psd, partito di centrosinistra in rotta con Bruxelles e con il Pse.  

La stessa quota dei due terzi è prevista in Austria, dove la ratifica continua a slittare da gennaio, sempre a causa di incertezze sui numeri. Una data ufficiale non è stata fissata, ma alcuni media locali scrivono che il voto dovrebbe arrivare entro metà maggio, appena in tempo per non far slittare l’attivazione del Recovery in tutta Europa da luglio a settembre.

Nella lista dei Paesi problematici non può mancare poi l’Ungheria del dittatorino Viktor Orbàn, che - naturalmente - non ha problemi di numeri in Parlamento, ma sembra deciso a tenere Bruxelles con il fiato sospeso fino all’ultimo.

Infine, seppure in modo diverso, contribuisce alla suspence anche la Germania. La legge tedesca che dà il via libera al Recovery Fund è stata approvata con oltre due terzi dei voti dal Bundestag e addirittura all’unanimità dal Bundesrat (le due camere del Parlamento di Berlino). Manca però la firma del presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, che è stata bloccata dalla Corte costituzionale. I giudici hanno deciso di valutare un ricorso presentato da Bernd Lucke, fondatore dell’ultradestra di Afd e animatore di una piattaforma euroscettica. All’inizio si pensava che l’esito favorevole a Bruxelles fosse scontato e che l’unico rischio riguardasse i tempi. Ora, invece, la situazione sembra essersi capovolta: stando alle ultime indiscrezioni, la sentenza arriverà entro aprile, ma sarà a due facce.

L’ipotesi è che, sulla scia di quanto deciso nel 2012 sul Meccanismo europeo di Stabilità, la Corte tedesca permetta al Capo dello Stato di promulgare la legge, ma al tempo stesso rinvii la pubblicazione delle motivazioni, dove si nasconderebbe la trappola. I giudici potrebbero stabilire che gli Eurobond (necessari a finanziare il Recovery Fund) siano ammissibili solo come strumenti temporanei, da utilizzare esclusivamente per contrastare gli effetti della pandemia.

In questo modo, la Corte diventerebbe protagonista di un dibattito destinato ad accendersi nei prossimi mesi: quello sulla possibilità di rendere permanenti gli Eurobond, sganciandoli dal piano di ripresa. Un’idea sostenuta dai Paesi mediterranei (Francia, Spagna, Italia) e contrastata dai frugali (Olanda, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia). Su questo fronte, come su molti altri, sarà decisivo l’esito delle elezioni federali tedesche, che a settembre ci diranno chi sarà il successore di Angela Merkel.