di Eugenio Roscini Vitali

La tensione crescente sull’arsenale atomico iraniano pare aver incontrato un momento di pausa. Forse le previsioni dei più scettici non corrispondono alla reale situazione geopolitica mediorientale, o forse è esagerato pensare che possa accadere, tanto alto sarebbe il prezzo che migliaia di civili pagherebbero, dall’una e dall’altra parte. Ma anche se quella militare non è la sola opzione scelta da Israele, è ormai certo che Tel Aviv sta assemblando una capacità di attacco tale da piegare definitivamente le ambizioni atomiche di Teheran. Questa volta però la soluzione armata non vede i favori degli Stati Uniti, che dal luglio scorso hanno cambiato praticamente il loro modo di affrontare il problema del nucleare iraniano ed hanno deciso, per la prima volta dal 1979, di aprire con la Repubblica Islamica relazioni dirette. Questo cambiamento di strategia è il risultato di due diverse azioni: quella del dipartimento di Stato Usa che sotto l’influenza della politica preme per una soluzione diplomatica, preoccupata soprattutto per il ruolo assunto da Mosca; quella dei vertici della Difesa che si rendono conto della difficoltà e delle conseguenze di un’azione militare che potrebbe prolungarsi per anni senza per altro produrre i risultati sperati.

Sulla possibile minaccia iraniana Washington e Tel Aviv non si trovano per nulla d’accordo: i vertici del Mossad sono convinti che Teheran sarà in grado di produrre la bomba atomica entro il 2010; gli Usa, pur avendo costatato un notevole l’incremento nelle attività di sviluppo di nuove centrifughe per la produzione di uranio arricchito, stimano che l’Iran raggiungerà la capacità nucleare non prima di alcuni anni, forse un decennio.

E così, nella paura di un nuovo olocausto, Israele continua a mostrare i muscoli: esercitazioni in grande stile, acquisizione dalla Germania di tre sottomarini Dolphin e rafforzamento della Heyl Ha'Avir, l’aeronautica militare israeliana (IAF), con l’arrivo di 90 F-16I Sufa (Tempesta), aerei da combattimento che hanno un’autonomia pari a 1.040 miglia (1.640 chilometri). Ma dotare l’IAF dei nuovi Sufa poco ha a che fare con le farneticanti dichiarazioni antisemite del presidente Ahmadinejad e con la possibilità che il suo paventato programma atomico diventi in breve tempo una vera minaccia: l’ordine degli F-16I risale al 1999 e rientra in un programma quadriennale (2004-2008) che comprende l’acquisizione di 102 velivoli, i primi due dei quali atterrarono nella base israeliana di Mizpe Ramon, deserto del Negev, il 19 febbraio del 2004.

Quando fu firmato il contratto con la Lockheed Martin la minaccia era rappresentata dall'Iraq, considerato la maggiore potenza militare araba in mediorientale, dalla Libia, paese considerato amico del terrorismo, e dall'Iran, che perseguiva una politica nucleare già iniziata nel 1957 dallo Shah Mohammad Reza Pahlavi e progettava la produzione di vettori a lunga gittata. Il Sufa era stato progettato e prodotto proprio per soddisfare le esigenze israeliane: capacità di rifornimento in volo, di colpire obiettivi a più di 1.500 chilometri di distanza volando a bassa quota, sia di giorno che di notte e in condizioni meteo avverse, sfuggendo ai radar e ai sistemi antiaerei del nemico. Uno scenario operativo molto simile a quello visto durante l’esercitazione “Glorious Spartan 08” del giugno scorso, a sud est dell’isola di Creta, dove l’aviazione israeliana ha simulato un attacco all’impianto nucleare iraniano di Natanz e ai sistemi della difesa aerea iraniani.

Nonostante la straordinaria efficienza delle Forze Armate israeliane, l’attacco all’Iran rimane un’operazione comunque difficile, molto più complicata di quella condotta con successo in Iraq nel 1981, durante la quale venne distrutto il reattore nucleare di Osirak, o di quella che nel settembre scorso portò alla distruzione di un obbiettivo situato in territorio siriano e identificato come possibile armamento nucleare di costruzione nord coreana. Nella Repubblica Islamica le installazioni atomiche sono molteplici e sono disseminate lungo tutto il paese, alcune nascoste tra le montagne, altre sistemate in siti sotterranei.

L’attacco dovrebbe poi colpire i sistemi di difesa aerea ed annientare le batterie missilistiche iraniane prima che la controffensiva abbia luogo. Le notizie sull’arsenale bellico di Teheran sono piuttosto confuse, ma secondo alcune fonti l’Iran sarebbe già in grado di utilizzare i missili a lungo raggio Shahab-3, vettori a testata nucleare che nelle versioni B e C hanno una raggio d’azione non superiore ai 1800 chilometri ma che, secondo i tecnici iraniani, possono raggiungere distanze prossime ai 2400 chilometri. Per quanto riguarda la difesa aerea, la Guardia Rivoluzionaria ha già a disposizione 29 sistemi missilistici russi terra-aria Tor-M1, un vero flagello per l’aviazione israeliana, e non è improbabile che presto Teheran possa entrare in possesso del sofisticatissimo S-300, ultimo gioiello dell’industri bellica russa.

Se l’amministrazione Bush ha “improvvisamente” deciso di abbandonare la soluzione dell’aggressione preventiva c’è una ragione: troppo pericolosa per le truppe e per gli interessi Usa in Medio Oriente; troppo costosa se ad una reazione armata seguisse il blocco dello Stretto di Hormuz, località strategica dalla quale passa il 20% del greggio prodotto giornalmente a livello mondiale. In alternativa Washington sembrerebbe disposta ad inserire Tel Aviv nel sistema di difesa aerea Defense Support Program (DSP); con la fornitura di due X-Band FBX-T, stazioni radar mobili collegate alla rete satellitare americana, gli Shahab, già identificati al momento del lancio, verrebbero intercettati quando si trovano a circa metà degli 11 minuti di volo previsti per raggiungere Israele.

In questo modo verrebbe superato il problema riscontrato con l’apparato di rilevamento traiettoria collegato al sistema israeliano anti-missile ABM Arrow, il Green Pine, che riesce ad identificare il vettore in arrivo solo quando questo si trova già nell’atmosfera ed è ormai a meno di 5 minuti dall’obiettivo. Inoltre gli Usa sarebbero pronti a fornire 9 aerei da trasporto a lungo raggio Super Hercules e l’aggiornamento delle batterie anti-missile a corto raggio Iron Dome, sistemi d’arma capaci di intercettare ed abbattere i vettori lanciati da oltre 4 chilometri ma in difficoltà con i 1800 metri che dividono Sderot da Beit Hanun, località da dove i palestinesi lanciano i Qassam, razzi che per raggiungere la periferia della località israeliana impiegano meno di 10 secondi.

Per non compromettere gli interessi nazionali in Medio Oriente la Casa Bianca ha invece deciso di interdire agli aerei israeliani lo spazio aereo iracheno, praticamente chiuso a chiunque pensi di portare una qualsiasi operazione offensiva contro la Repubblica Islamica, e ha negato allo Stato ebraico gli armamenti speciali necessari per l’attacco, le bombe intelligenti ad alta penetrazione che permetterebbero la distruzione dei più profondi e protetti bunker sotterranei iraniani. Scelte che potrebbe riflettere un possibile accordo Usa-Iran: nessun intervento militare in cambio di un prezzo del greggio che non superi il tetto dei 150 dollari al barile. Questa volta il petrolio lascia a piedi la macchina bellica targata Stella di David; semaforo rosso sulla strada per Teheran.

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