Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

di Fabrizio Casari

Com’era facile prevedere, la Risoluzione dell’Onu sulla “No fly zone” era fumo negli occhi destinato solo a strappare l’astensione di Cina e Russia. Quella che si preparava era una vera e propria guerra alla Libia, e così è stato. Nessun pattugliamento dei cieli, nessuna sicurezza per le popolazioni a terra: missili Tomawack e Cruise sganciati da navi e sottomarini al largo della Sirte, raid aerei operati dai Mirage francesi e F16 britannici, hanno celebrato il battesimo dell’operazione “Odissea all’alba”.

I morti sono già a centinaia, il paese conta già la sua razione non richiesta di distruzione e orrore: i famosi diritti umani che si dovevano tutelare possono essere identificati nella chirurgia delle bombe, che colpiranno aereoporti, case, scuole ed ospedali, ma che lasceranno intatti i pozzi e gli acquedotti. Le vittime di ieri, da domani cambieranno nome: diventeranno "effetti collaterali".

Rispetto alle guerre di questi ultimi anni va registrato un ruolo diverso da parte degli Stati Uniti, che dirigono sì militarmente le operazioni compiute dalle forze Nato, ma politicamente il ruolo più importante è quello di Parigi, con Londra al seguito e Washington a dare copertura politica all’operazione. L’iper attivismo di Parigi nella crisi libica non ha niente a che vedere con i diritti umani, com’è ovvio. Con la caduta di Ben Alì, la Francia ha perso un alleato fedele, un servitore attento alle esigenze di controllo politico francese sul Maghreb francofono e la stessa situazione complicata in Algeria potrebbe presto portare a dover conteggiare due perdite significative nell’area, due pedine fondamentali dello scacchiere coloniale francese. E la Libia è sembrata un’ottima alternativa.

Parigi ha scelto quindi d’intervenire pesantemente sin dall’inizio della rivolta senussita in Cirenaica: la sua strategia era chiara, voleva la guerra e l’ha ottenuta. E proprio in funzione di ciò, e per candidarsi alla leadership politica dell’operazione, Parigi è stata la prima e unica capitale a riconoscere come interlocutore politico gli insorti, bruciando i tempi e senza minimamente guardare per il sottile alla composizione effettiva degli stessi.

Perché chi siano e cosa vogliono i rivoltosi, per la Francia non è importante: quello che conta è la cacciata di Gheddafi, ingombrante finanziatore della campagna elettorale di Sarkozy ma leader inaffidabile, comunque non disposto a permettere alla Francia di divenire il partner strategico della Libia, dati anche i rapporti con Roma che avevano trasformato il rais, un tempo definito in Occidente il “pazzo di Tripoli” e dall’Africa considerato un pagliaccio, in un personaggio rispettato e osannato.

Gheddafi, da Parigi, altro non voleva che quello che aveva: il consolidamento dei buoni rapporti economici bilaterali e buone relazioni con la confinante Tunisia, ma nessuna penetrazione eccessiva in Libia; vuoi perché Parigi sa essere molto meno servile verso i suoi interlocutori, vuoi perché il patto con l’Italia aveva anche il suggello di un trattato politico che comprendeva business ed interessi reciproci quasi esclusivi con Roma.

Ma la congiuntura maghrebina, ha scatenato la Francia nella rincorsa a posizioni alternative che compensassero le perdite tunisine. Mai stata in grado di mettere le mani sugli Emirati, fuori dal controllo del petrolio iracheno e lontana da quello iraniano, Parigi ha bisogno di entrare nella nuova dimensione coloniale proprio attraverso i rubinetti del greggio. Sarkozy ha individuato nella Libia il luogo ideale: petrolio e dimensione territoriale ampia a fronte di demografia relativamente bassa, sbocco diretto sul Mediterraneo e infrastrutture estrattive di buona qualità. Dunque, gli insorti sono stati soprattutto un regalo che la congiuntura politica interna alla Libia ha offerto alla campagna elettorale di Sarkozy e alle aziende francesi del comparto energetico, dalle quali il piccoletto dell’Eliseo dipende in tutto e per tutto.

Saranno infatti la Total e la Elf, nei piani dell’Eliseo, a sostituire l’Eni nel partenariato con la Libia futura. La tragedia giapponese, peraltro, ha ulteriormente accentuato la necessità di Parigi di dotarsi di un ulteriore fonte di approvvigionamento energetico, visto che lo stesso nucleare francese - nonostante sia proprio l’Italia ad affidarvisi in prospettiva - segna il passo.

Abbastanza simile il discorso riguardo a Londra. Il disastro del Golfo del Messico ad opera della British Petroleum ha visto ridurre pesantemente l’appeal della multinazionale inglese. Altri territori per nuovi pozzi sono fondamentali per recuperare il terreno perso e la possibilità di operare in un’area del mondo dove, dalla cacciata ad opera proprio del colpo di Stato del 1969, quando gli inglesi furono cacciati dagli ufficiali guidati da Gheddafi, non c’erano più state condizioni possibili per accrescere l’influenza e il business di Londra. D’altro canto, la storia britannica in Medio Oriente, dal 1948 in Palestina al 1956 a Suez e poi, appunto, al 1969 in Libia, è stata una storia pesante d’ingerenze, senza che però queste abbiano mai sancito una leadership britannica sull’area. Occasione migliore di questa, dunque, per Londra era difficile da immaginare. La BP e la Shell aspettano. E la nuova leadership di Cameron ha un disperato bisogno di accreditarsi, Oltremanica come a livello globale.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, va registrato un impegno forte sia dal punto di vista politico nella richiesta prima di dimissioni di Gheddafi, poi di uso della forza contro lo stesso; ma sembra potersi delineare un profilo diverso, meno marcato di quello assunto per l’Iraq e l’Afghanistan. Perché per gli interessi geostrategici statunitensi non tutto pesa allo stesso modo. Ovviamente non è nemmeno possibile ipotizzare un’operazione militare Nato che nasca senza il consenso di Washington e della quale il Pentagono non ne abbia il comando di fatto, dunque la sua centralità nella preparazione politico-diplomatica della guerra e nella sua conduzione non è certo in discussione.

Obama, del resto, in comune con Sarkozy e Cameron, vive una situazione politica interna difficile e si trova a poca distanza, ormai, da una scadenza elettorale che minaccia di essere un verdetto inappellabile. Essere ostaggio della maggioranza repubblicana al Congresso e al Senato sui temi economici e sociali non basta per tentare l’operazione di recupero; la politica estera è fondamentale per dare un segno di continuità storica con i suoi predecessori e inviare un segnale forte al complesso militar-industriale. E anche per quanto riguarda il consenso popolare mainstream, una guerra per un presidente USA è sempre un’ottima occasione per trasformarsi da politicante a capo della nazione: il riflesso elettorale positivo è garantito.

Ma la sensazione è che gli Usa, diversamente da altri scenari, siano disposti a contrattare con Parigi (con cui non sempre la vison è comune), la leadership e il bottino di guerra. Per le spese, ci penseranno invece i sauditi, come già per la prima guerra del Golfo. Perché Obama presidente può anche rivelarsi tutt’altro rispetto all’Obama candidato; può anche promettere di uscire da una delle due guerre in campagna elettorale e poi invece mantenerle e, anzi, aprirne una terza arrivato alla Casa Bianca. Ma il suo sistema di valori tutto può prevedere tranne il non tenere nella debita considerazione quelli veri, che risiedono a Wall Street.