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L’iniezione letale che nella tarda serata di mercoledì ha ucciso in un penitenziario del Texas il cittadino messicano Ruben Ramirez Cardenas non ha rappresentato solo l’ultima conferma della natura barbara e violenta del sistema giudiziario americano, ma ha anche messo ancora una volta gli Stati Uniti al di fuori della legalità internazionale.

 

Il 47enne Cardenas è stato rinchiuso nel braccio della morte per quasi vent’anni e i suoi diritti sono stati deliberatamente violati fin dall’arresto, avvenuto nel 1997. La sua storia aveva sollevato accese polemiche soprattutto al di fuori degli Stati Uniti. Dopo l’arresto, infatti, non gli era stato comunicato tempestivamente il diritto di ricevere assistenza da parte delle autorità consolari del suo paese. Il governo messicano avrebbe avuto notizia dell’arresto di Cardenas solo cinque mesi più tardi.

 

 

Questo diritto fondamentale previsto per gli accusati di qualche crimine in un paese di cui non hanno la cittadinanza è sancito dalla Convenzione di Vienna sulle Relazioni Consolari del 1963, sottoscritta, sia pure con alcuni importanti distinguo, anche dagli Stati Uniti.

 

Il governo messicano aveva più volte manifestato il proprio disappunto per la vicenda legale di Cardenas e nella giornata di mercoledì in un messaggio su Twitter lo stesso presidente, Enrique Peña Nieto, ha “condannato fermamente” l’esecuzione.

 

Il comportamento americano era stato oggetto delle pesanti critiche anche di numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani. Tra le altre, la Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani, organo indipendente dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), aveva recentemente adottato una risoluzione nella quale, vista la gravità del caso Cardenas, chiedeva agli USA di “astenersi dall’applicazione della pena di morte” nei confronti del detenuto messicano.

 

Tutte le proteste internazionali e l’evidenza della violazione dei diritti di Cardenas non sono riusciti alla fine a fermare la mano del boia in Texas. Per legittimare la condanna e l’esecuzione, le autorità politiche e la giustizia americane hanno creato in questi anni varie giustificazioni pseudo-legali a dir poco discutibile. Una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2008, in particolare, aveva stabilito che la Convenzione di Vienna era da considerarsi vincolante solo per il governo federale, mentre non risulterebbe applicabile nei casi di competenza dei singoli stati americani.

 

Per neutralizzare poi una decisione della Corte di Giustizia Internazionale, che metteva di fatto fuori legge la detenzione nel braccio della morte negli USA di una cinquantina di cittadini messicani, la stessa Corte Suprema aveva rimandato al Congresso di Washington una decisione sull’argomento. Prevedibilmente, tuttavia, da quest’ultimo non è mai arrivato nessun provvedimento in proposito.

 

Oltre a mostrare l’indifferenza degli Stati Uniti per il diritto internazionale, il caso di Cardenas è risultato emblematico anche del carattere anti-democratico e ultra-autoritario del sistema penitenziario e giudiziario americano, anche quando in gioco vi è la vita dei condannati.

 

Cardenas aveva ricevuto la sentenza di morte nel 1998 per il rapimento e l’assassinio di una cugina di 16 anni. Le circostanze seguite all’arresto sarebbero state messe però in seria discussione dal cittadino messicano e dai suoi legali. La sua confessione era stata la prova principale nel procedimento ma, secondo Cardenas, gli sarebbe stata estorta dalla polizia del Texas e, infatti, egli stesso avrebbe ben presto dichiarato la propria innocenza.

 

Non solo, un’altra gravissima violazione dei suoi diritti ha pesato sulla condanna, visto che la polizia gli permise di ottenere un avvocato solo dolo 11 giorni dal suo arresto, durante i quali era stato interrogato ripetutamente senza assistenza legale. Le dichiarazioni rilasciate in questo periodo di tempo erano risultate contraddittorie. Ad esempio, Cardenas aveva dichiarato di avere violentato la vittima, ma l’esame sul cadavere aveva smentito l’ipotesi dello stupro. Gli avvocati difensori di Cardenas hanno poi sempre sostenuto che le prove raccolte dagli inquirenti potevano essere state contaminate, ma i tribunali americani non hanno mai consentito nuovi esami del DNA che avrebbero potuto scagionare il loro cliente.

 

Nei giorni e nelle ore precedenti l’esecuzione, i legali di Cardenas hanno presentato svariati ricorsi, sia nel circuito statale del Texas sia a livello federale fino alla Corte Suprema di Washington. Nonostante gli elementi a favore del cittadino messicano, tutti gli appelli anche per una sospensione della condanna sono stati però respinti, a conferma del disinteresse del sistema giudiziario USA per le più basilari norme democratiche e per il diritto americano e internazionale anche in presenza di elementi e fattori di estrema rilevanza.

 

Cardenas, da parte sua, ha continuato a ribadire la sua innocenza fino al momento dell’esecuzione. Nella sua ultima dichiarazione scritta prima dell’iniezione letale, Cardenas ha affermato di non potersi scusare per “un crimine commesso da qualcun altro”. Come già ricordato, l’esecuzione di Ruben Ramirez Cardenas non rappresenta un caso isolato negli Stati Uniti. Oltre ai più di cinquanta detenuti nel braccio della morte, sono almeno cinque i cittadini messicani già giustiziati negli USA in violazione del diritto internazionale.

 

La storia di Cardenas si inserisce in un quadro giudiziario caratterizzato da ripetuti abusi, eccessi e aberrazioni legali nell’ambito della somministrazione della pena capitale in America. Uno degli esempi più recenti è rappresentato da una decisione della Corte Suprema di Washington, presa proprio questa settimana, che ha dato il via libera all’esecuzione di un detenuto 67enne gravemente invalidato da una serie di ictus. Svariate perizie psicologiche hanno dimostrato che il condannato, detenuto in Alabama, non è in grado nemmeno di ricordare il crimine del 1985 che gli sarebbe costato la condanna a morte nove anni più tardi.