Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

Nonostante il glorioso passato imperiale, gli inglesi non hanno mai avuto alcuna possibilità di vincere questa battaglia. Infatti l’hanno persa. L’accordo raggiunto fra il governo britannico e l’Ue per chiudere la fase uno della trattativa sulla Brexit, quella dedicata ai termini del divorzio, si è risolto in una disfatta per Londra. Dopo nove mesi di negoziati, la premier Theresa May ha dovuto cedere su tutta la linea. A cominciare dal Brexit bill, il conto della separazione.

 

 

Per staccarsi dall’Unione europea la Gran Bretagna pensava di dover versare nelle casse comunitarie circa 20 miliardi di euro. Invece ora accetta di pagarne quasi il triplo, fra i 50 e i 60 miliardi, garantendo così il proprio contributo al bilancio Ue fino a un anno dopo il divorzio.

 

Per quanto riguarda i cittadini comunitari residenti sul suolo britannico (circa tre milioni di persone), Londra si è impegnata a non toccare i loro diritti. Non solo: in caso di controversie che coinvolgano queste persone, per i primi 8 anni del dopo Brexit la competenza sarà ancora della Corte di Giustizia europea.

 

Infine, il tema più spinoso: la frontiera fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda. Su questo punto May era davvero spalle al muro. Un confine vecchio stile distruggerebbe l’economia dell’isola e riaccenderebbe gli scontri fra unionisti e repubblicani. Se invece tutto restasse com’è, si aprirebbe una breccia nel sistema doganale europeo.

 

Per uscire dall’angolo, la premier britannica non ha potuto far altro che capitolare. Londra garantirà che le due parti dell’Irlanda non saranno divise da alcuna frontiera o dogana, anche a costo di allineare la normativa britannica in materia commerciale a quella europea. Attenzione: la normativa britannica, non nordirlandese. Nessun inglese ha il coraggio di ammetterlo, ma una promessa del genere suona tanto come una rinuncia a uscire dal mercato unico.

 

Insomma, su tutti e tre i fronti – assegno, immigrati e Irlanda – i sostenitori della hard Brexit sono stati sconfitti. Ciò dimostra che la campagna referendaria pro-Leave di due anni fa si fondava su un mucchio di bugie. La prima (e la più grave) era che l’Ue avesse bisogno della Gran Bretagna più di quanto la Gran Bretagna avesse bisogno dell’Ue. Nick Clegg, vicepremier nel governo Cameron, sottolinea in un’intervista a La Repubblica che “quando un Paese si scontra con un blocco di 27 Paesi, vincono i 27”. Era chiaro fin dall’inizio.

 

Ora i brexiters duri e puri accusano May di tradimento, ma la verità è che la Premier non ha potuto scegliere. L’Europa non aveva alcuna fretta di chiudere il negoziato, mentre per la Gran Bretagna rinviare ancora l’intesa sulla fase uno sarebbe stato un suicidio. Quasi certamente il ritardo non avrebbe permesso di raggiungere un accordo complessivo sulla Brexit entro il 29 marzo 2019, data in cui si consumerà ufficialmente l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. A quel punto i rapporti commerciali fra UK e Ue sarebbero stati regolati dalle norme del WTO, che avrebbero fatto a pezzi l’economia britannica a suon di dazi e burocrazia. Per evitare questo scenario, May avrebbe firmato anche un assegno in bianco. E a Bruxelles lo sapevano bene.

 

La fase due della trattativa, che si apre adesso, riguarda proprio i rapporti futuri tra Europa e Regno Unito. Il fronte più caldo è naturalmente quello commerciale. Il negoziatore europeo Michel Barnier (che grazie ai successi contro Londra fa un passo verso la presidenza della Commissione nel 2019) dice di puntare a un accordo simile a quello da poco siglato con il Canada.

 

Si tratta di un’intesa che crea un’area economica unica senza però costringere la controparte ad accettare tutte le regole del mercato interno, come la libera circolazione delle persone. Il problema è che il trattato euro-canadese riguarda solo i beni, mentre l’80% dell’economia britannica è fatta di servizi, a cominciare da quelli finanziari. Venirne a capo non sarà semplice. L’unica certezza è che la trattativa dovrà terminare entro l’autunno del 2018, altrimenti i singoli Paesi non avranno il tempo di ratificare l’accordo prima del marzo 2019.

 

Dopo quella data, peraltro, Londra vuole un periodo di transizione di due anni per assestarsi nella nuova condizione. L’Europa è disposta a concederglielo, ma solo se la Gran Bretagna accetterà di far fronte agli obblighi giuridici e finanziari imposti dall’Ue senza però esercitarne i diritti. In sostanza, fra il 2019 e il 2021 i sudditi di Sua Maestà pagheranno i conti e rispetteranno le regole dell’Europa, ma non avranno più voce in capitolo su alcuna decisione. Una sorta di auto-declassamento allo status di colonia. Non male per chi, come i brexiters, vorrebbe tornare al glorioso passato imperiale.