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La violentissima polemica scatenata a Washington dalla pubblicazione del libro del giornalista Michael Wolff sull’esperienza alla Casa Bianca dell’ex consigliere di Trump, Stephen Bannon, è continuata a infiammare il panorama politico americano nel fine settimana nonostante la parziale marcia indietro di quest’ultimo sulle accuse al presidente e al suo staff.

 

 

Le scuse più o meno esplicite rivolte a Trump e gli elogi, espressi in un comunicato ufficiale, per il lavoro dell’amministrazione repubblicana sono stati alla fine inevitabili per Bannon, il quale si è ritrovato pericolosamente isolato nel perseguimento del suo progetto politico ultra-reazionario subito dopo la diffusione di alcune anticipazioni del libro intitolato “Fire and Fury: Inside the Trump White House”.

 

Le scintille tra Bannon e Trump erano iniziate con la durissima risposta del presidente alle anticipazioni del lavoro di Wolff, seguita dal tentativo fallito di bloccarne la pubblicazione. Il ritratto di Trump che esce dal libro è quello di una sorta di incapace installato alla Casa Bianca, totalmente privo non solo di un minimo di competenze storiche o politiche, ma anche della capacità di focalizzare la propria attenzione sulle questioni legate all’ufficio di presidente.

 

Al di là dei ridicoli “tweet” dello stesso Trump per replicare alle accuse, e nei quali è arrivato ad auto-definirsi “genio”, buona parte dell’attenzione dei media americani si è concentrata sul resoconto di Bannon di una ormai nota riunione, tenuta alla Trump Tower di New York durante la campagna elettorale del 2016, tra il figlio del presidente, Donald Trump jr., e un avvocato russo con presunti contatti all’interno del Cremlino.

 

L’incontro era già emerso qualche mese fa nell’ambito della caccia alle streghe del “Russiagate” perché, in quell’occasione, la presunta rappresentante del governo di Mosca avrebbe offerto alla campagna di Trump del materiale, in realtà inesistente, che avrebbe potuto screditare Hillary Clinton. Nel libro appena uscito negli USA, Bannon descrive il comportamento del primogenito di Trump come “anti-patriottico” e in odore di “tradimento”.

 

Nel fine settimana l’ex “stratega” del presidente ha affermato però che le definizioni a lui attribuite sarebbero “inesatte” e che le sue critiche non erano rivolte al primogenito di Trump, bensì all’ex numero uno della campagna elettorale di quest’ultimo, Paul Manafort, oggi in attesa di una possibile incriminazione da parte dell’FBI nell’ambito del “Russiagate” e anch’egli presente alla suddetta riunione.

 

Bannon ha poi insistito nel celebrare le doti “patriottiche” di Trump jr. e ha assicurato che, a suo parere, non vi fu alcuna collusione tra la squadra del presidente e il governo russo, così che l’indagine in corso, guidata dall’ex direttore dell’FBI Robert Mueller, sarebbe soltanto una “caccia alle streghe”. L’ex consigliere neo-fascista di Trump si è infine scusato anche per il suo “ritardo nel denunciare l’inaccurato resoconto su Trump jr.” contenuto nel libro; cosa che avrebbe “distolto l’attenzione dagli storici successi del presidente”.

 

Le rivelazioni contenute nel volume basato sulla testimonianza di Stephen Bannon forniscono un quadro devastante della situazione alla Casa Bianca e dello stesso presidente. Tuttavia, esse non sono cosa nuova né sorprendente, essendo risapute sia le capacità mentali di Trump sia la sua totale inadeguatezza a ricoprire l’incarico di presidente.

 

L’aspetto più significativo della vicenda è che essa serve in definitiva a intensificare la lotta intestina in atto nella classe dirigente americana e che vede una parte di essa, in larga misura allineata al Partito Democratico e all’apparato militare e dell’intelligence, impegnata nel tentativo di chiudere anticipatamente il capitolo della presidenza Trump.

 

Le indiscrezioni di Bannon sono cioè un’estensione del “Russiagate” e con esso infatti si incrociano, fino ad alimentare un dibattito, entrato secondo alcuni addirittura alla Casa Bianca, sull’opportunità di ricorrere al 25esimo emendamento della Costituzione americana per rimuovere Trump dal suo incarico. Secondo questo meccanismo, un voto del vice-presidente e della maggioranza del gabinetto potrebbe portare alla deposizione del presidente se ritenuto non in grado di adempiere ai propri compiti.

 

Di questa eventualità si continua a parlare negli USA e la questione è tornata all’ordine del giorno proprio in seguito alla pubblicazione del libro di Wolff. Per quanto l’allontanamento di Trump dalla Casa Bianca possa risultare di per sé un fatto più che auspicabile, le manovre in atto per giungere a questa conclusione e la natura degli oppositori del presidente renderebbero l’evento un’operazione profondamente reazionaria. Esso, in fin dei conti, favorirebbe la fazione più legata all’apparato di potere americano identificabile con determinati grandi interessi economico-finanziari e con il cosiddetto “deep state”.

 

D’altronde, l’opposizione a Trump non è motivata dalla lotta contro le politiche reazionarie e anti-democratiche che ha implementato o lanciato negli ultimi dodici mesi, ma fondamentalmente da ragioni di natura strategica legate agli interessi del capitalismo americano a livello globale. Non solo, buona parte della classe dirigente USA è preoccupata per il comportamento irrazionale di Trump, le cui decisioni sminuiscono sempre più la residua credibilità del governo di Washington sia sul fronte domestico che internazionale.

 

L’altro aspetto della questione da considerare con attenzione ha a che fare con le ragioni che hanno spinto Bannon a cercare di smentire giudizi e opinioni da lui stesso autorizzati ad apparire in un libro appena pubblicato.

 

Per avere un’idea corrispondente alla realtà è utile ricordare che la collaborazione di Bannon con Trump durante la campagna elettorale e il suo ingresso alla Casa Bianca facevano parte di un disegno ben preciso, studiato dal primo e dai suoi sostenitori e nel quale il secondo era poco più che una pedina più o meno consapevole.

 

Il piano di Bannon ha e continua ad avere come obiettivo la transizione verso forme di governo ancora più autoritarie negli USA, se non di stampo apertamente fascista, apparentemente legittimate da una base di consenso nella quale rientrano le sezioni più reazionarie della popolazione americana, dagli esponenti più conservatori del business privato ai gruppi fondamentalisti cristiani.

 

In questo quadro era necessario per Bannon contare su una figura carismatica come Trump che fungesse da catalizzatore del consenso per un progetto definito eufemisticamente “nazionalista” dalla stampa d’oltreoceano. La sua cacciata dalla Casa Bianca lo scorso mese di agosto, nel quadro del rimescolamento degli equilibri dello staff presidenziale voluto dal capo di gabinetto, generale John Kelly, aveva solo fino a un certo punto ridimensionato le ambizioni di Bannon.

 

L’ex Goldman Sachs era tornato al sito web punto di riferimento dell’estrema destra americana, Breitbart News, da dove poteva intensificare la sua campagna contro l’establishment di Washington, incluso quello repubblicano, e, allo stesso, tempo continuava a vantare rapporti frequenti e cordiali con il presidente.

 

Il polverone scatenato dal libro di Wolff, forse ritenuto utile da Bannon per attaccare i suoi rivali alla Casa Bianca e alimentare le divisioni nell’amministrazione a favore del suo progetto, lo ha però messo improvvisamente all’angolo, costringendolo a tornare parzialmente sui suoi passi.

 

Il legame con un presidente tuttora apprezzato dalla galassia dell’estrema destra USA e il suo sostegno, forse anche in prospettiva futura, risultano d’altra parte fondamentali per Bannon da giustificare un tentativo di riconciliazione, dal momento che né lui né il suo disegno politico raccolgono particolari consensi al di là dei ristretti circoli xenofobi, ultra-reazionari e neo-fascisti americani.

 

Tanto più che anche i facoltosi sostenitori di Bannon, tra cui l’ereditiera finanziatrice di Breitbart News, Rebekah Mercer, in questi giorni hanno preso senza particolari esitazioni le difese del presidente, mostrandosi pronti, se le circostanze dovessero richiederlo, a liquidare il sempre più isolato ex “stratega” della Casa Bianca.