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A sette anni dalla rivoluzione in Tunisia che ha rovesciato il regime del presidente Zine El Abidine Ben Ali, il paese nordafricano è di nuovo scosso da movimenti di protesta, diretti oggi contro il governo formalmente democratico. Le ragioni dell’esplosione del malcontento sono legate alle “riforme” economiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dai creditori internazionali di Tunisi, anche se le dimostrazioni esprimono la persistente ostilità popolare nei confronti di un sistema che poco o nulla ha fatto per affrontare le questioni irrisolte del periodo post-rivoluzionario.

 

 

Le manifestazioni erano iniziate spontaneamente lunedì in una dozzina di località in risposta all’entrata in vigore di una serie di aumenti dei prezzi di beni di consumo e del carico fiscale, previsti dal bilancio 2018 del governo del primo ministro, Youssef Chahed, a capo di una coalizione di partiti islamisti e secolari.

Nella giornata di martedì i disordini si allargati ad altre città, inclusa la capitale, in risposta anche all’intervento delle forze di sicurezza e alla morte, in circostanze ancora non del tutto chiare, di un manifestante 45enne nella località di Tébourba, situata a una cinquantina di chilometri da Tunisi. Il bilancio dopo i primi giorni di proteste è di oltre 200 arresti e decine di feriti.

 

In alcune aree del paese dove la mobilitazione popolare è apparsa particolarmente massiccia, il governo ha inviato anche le forze armate in appoggio alla polizia locale, sia per reprimere le proteste sia per difendere edifici governativi e delle istituzioni finanziarie, presi di mira dai manifestanti.

 

I media tunisini e occidentali hanno rilevato come l’entità delle proteste in Tunisia sia per il momento nettamente inferiore rispetto a quelle del 2011 che portarono alla fine di Ben Ali. Tuttavia, il senso di inquietudine tra la classe dirigente indigena e i governi stranieri con interessi in Tunisia è chiaramente palpabile, visto l’accumularsi di gravissime tensioni sociali in questi ultimi anni.

 

Particolarmente allarmanti per il governo centrale, quanto meno per il loro valore simbolico, appaiono le dimostrazioni registrate nella località di Sidi Bouzid, da dove nel 2011 partì la rivoluzione dopo che l’ambulante e attivista Mohamed Bouazizi si era dato fuoco per protestare contro l’oppressione del regime e una situazione economica intollerabile.

 

La nuova esplosione di proteste in Tunisia era stata ampiamente prevista dal governo e dai partiti di opposizione. Almeno a partire dagli ultimi mesi del 2017 anche la stampa occidentale aveva raccontato di una classe politica pronta ad affrontare l’opposizione popolare mentre si apprestava ad implementare le “raccomandazioni” del FMI.

 

Nel 2016 la Tunisia aveva ottenuto l’approvazione di un prestito di poco meno di tre miliardi di dollari dal FMI, come sempre vincolato all’adozione di una serie di “riforme” economiche in senso neo-liberista. Una visita nel paese ai primi di dicembre dei rappresentanti del Fondo aveva rivelato l’impazienza degli ambienti finanziari internazionali nei confronti del governo di Tunisi, chiaramente preoccupato per l’impatto delle misure richieste in termini di stabilità sociale.

 

L’intesa per procedere in questo senso era stata tuttavia piena, come avevano confermato le dichiarazioni sia dei burocrati del FMI sia dei membri del governo tunisino. Il ministro delle Riforme Economiche, Taoufik Rajhi, aveva ad esempio annunciato il lancio di iniziative “senza precedenti” per tagliare il deficit tunisino dal 6% al 4,9% nel 2018.

 

Il pacchetto di riforme prevedeva anche i già ricordati aumenti delle tasse e dei prezzi di molti beni di consumo, così come dei contributi pensionistici a carico dei lavoratori. In particolare, l’attenzione del FMI si era concentrata anche sul costo dei salari dei dipendenti pubblici, da portare al 12,5% del PIL entro il 2020 contro il 15% attuale. Questo obiettivo dovrebbe essere raggiunto in primo luogo con il taglio di circa 20 mila posti di lavoro.

 

Un’analisi pubblicata dalla Reuters a dicembre anticipava l’intenzione del governo di attenuare le “riforme” volute dal FMI proprio per evitare manifestazioni di protesta, ma il bilancio alla fine approvato ha evidentemente fallito nell’impossibile obiettivo di conciliare pace sociale e aspettative dei creditori internazionali.

 

Le ultime misure decise dal governo si innestano d’altra parte su una situazione economica in evidente deterioramento e peggiorata dal rallentamento degli investimenti internazionali a causa dei frequenti scioperi e dalla minaccia di attentati terroristici. L’inflazione resta così ben al di sopra del 6%, mentre il dato ufficiale, probabilmente sottostimato, della disoccupazione supera il 15% e addirittura il 30% per i giovani.

 

Sul fronte politico, il primo ministro Chahed ha minacciato un intervento ancora più duro delle forze di polizia con il pretesto di impedire atti di violenza e distruzione della proprietà privata. I partiti di opposizione stanno invece cavalcando le manifestazioni popolari, invitando i dimostranti a rimanere nelle piazze fino a che le “riforme” economiche non saranno ritirate.

 

Anche il potente sindacato UGTT ha chiesto misure per alleviare la povertà e gli stenti di milioni di tunisini, ma il ruolo di questa organizzazione e dei partiti di “sinistra” risulta insidioso per la popolazione tunisina. Proprio queste formazioni politiche e sindacali sono state determinanti nel contenere le spinte rivoluzionarie dopo la deposizione di Ben Ali, garantendo la sostanziale stabilità del capitalismo tunisino e favorendo i tradizionali interessi di classe dietro la facciata di un sistema formalmente democratico.

 

Le proteste in corso in Tunisia, infine, sono significativamente l’espressione di un malcontento generalizzato che sta attraversando l’Africa settentrionale e il Medio Oriente, ma anche svariati paesi europei, in conseguenza di tensioni sociali provocate dagli attacchi sempre meno sostenibili alle condizioni di vita di lavoratori e classe media.

 

In maniera non casuale, gli eventi registrati in Tunisia in questi primi giorni dell’anno stanno infatti avvenendo più o meno in concomitanza con dimostrazioni contro austerity e misure varie di rigore che, solo per citare i casi più significativi, stanno interessando paesi come Iran, Israele e Sudan.