Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

Secondo un articolo anonimo e con pochi precedenti, apparso mercoledì sulle pagine del New York Times, Donald Trump sarebbe stato di fatto messo sotto la tutela di una cosiddetta “resistenza” all’interno della Casa Bianca che si è auto-assegnata il compito di “frustrare parte dell’agenda” del presidente e di contenere “le sue peggiori inclinazioni”.

 

L’editoriale sarebbe stato scritto da un esponente “senior” e di nomina politica dell’amministrazione repubblicana, vale a dire un membro del gabinetto o un consigliere di primo piano del presidente. Se intrighi, rivalità e divisioni alla Casa Bianca sono note e documentate da tempo, quanto apparso questa settimana sul Times porta tutto ciò a un altro livello e, soprattutto, rivela l’esistenza di possibili manovre interne per rimuovere Trump dal suo incarico.

 

L’anonimo autore dell’articolo e gli altri appartenenti alla “resistenza” operano dunque per ostacolare determinate decisioni che il presidente tenderebbe a prendere in maniera impulsiva e sconsiderata. Questa caratterizzazione del clima che regna alla Casa Bianca è in linea con le anticipazioni del nuovo libro del noto giornalista del Washington Post, Bob Woodward, apparse nei giorni scorsi sulla stampa USA e che avevano ugualmente scatenato le ire di Trump.

 

Nel libro di Woodward si cita ad esempio l’ex consigliere economico di Trump, Gary Cohn, il quale racconta di avere sottratto dei documenti dalla scrivania del presidente per evitare l’implementazione di sanzioni commerciali ai danni di alleati come Canada, Corea del Sud e Messico. Cohn lo aveva fatto per “proteggere il paese” e Trump non si sarebbe nemmeno reso conto di quanto accaduto.

 

L’editoriale del New York Times descrive la leadership di Trump come “impetuosa, contraddittoria, meschina e inefficace”, bilanciata solo da alcuni membri dello staff e del gabinetto che vengono definiti gli unici “adulti nella stanza” con il compito di “impedire il disastro”.

 

Un’altra rivelazione spiega a sufficienza il livello di crisi che sta attraversando il governo americano. La cosiddetta “resistenza” interna alla Casa Bianca avrebbe discusso in varie occasione l’opportunità di invocare il 25esimo emendamento alla Costituzione americana che stabilisce le procedure per la rimozione di un presidente, senza l’intervento del Congresso, in caso di morte o incapacità di assolvere alle proprie funzioni.

 

Il piano sarebbe stato alla fine abbandonato nel timore di innescare una crisi costituzionale. L’obiettivo degli oppositori interni del presidente resta così quello di “guidare l’amministrazione nella giusta direzione”, finché, “in un modo o nell’altro, tutto sarà finito”. Quest’ultimo accenno sembra fare riferimento alla fine del primo mandato di Trump, ma lascia intendere nel contempo il sostegno a una qualche altra azione diretta alla rimozione del presidente.

 

La pubblicazione di questo editoriale rappresenta, assieme agli stralci del libro di Woodward apparsi sul giornale di proprietà del numero uno di Amazon, Jeff Bezos, un’intensificazione dell’offensiva lanciata contro Trump da una parte considerevole dell’apparato di potere americano.

 

A essa fanno capo sezioni dell’intelligence, dei vertici militari e della sicurezza nazionale, ma anche buona parte del Partito Repubblicano, quasi tutto quello Democratico, i media “mainstream” e quella parte del mondo degli affari contraria alla deriva ultra-nazionalista e protezionistica dell’amministrazione Trump. Che il Times e il Post fungano da organi di propaganda di queste manovre è tutt’altro che sorprendente, visto anche il loro ruolo nel promuovere la caccia alle streghe del “Russiagate”, cioè l’altra principale linea di attacco contro la Casa Bianca.

 

Il ricorso alle accuse di non essere in grado di svolgere il proprio incarico e di avere perso totalmente il controllo sul suo staff, allo stesso modo di quelle relative alle presunte collusioni con Mosca, sono funzionali alla creazione di un clima che giustifichi possibili azioni dirette alla deposizione di Trump. La retorica dei rivali di quest’ultimo include poi puntualmente riferimenti al patriottismo, alla democrazia o alla necessità di salvaguardare l’unità del paese.

 

In realtà, la fazione dell’establishment che sta conducendo questa guerra interna alla classe dirigente USA non è meno reazionaria di Trump e della sua cerchia. Infatti, le critiche non riguardano mai le politiche classiste, anti-sociali e guerrafondaie attuate o pianificate dal presidente. Al contrario, l’obiettivo è di indirizzare la Casa Bianca su binari strategici ben precisi, soprattutto riguardo la politica estera, ricalibrandola a favore dei tradizionali alleati e contro la Russia di Putin.

 

La natura della “resistenza” a cui ha dato clamorosamente spazio il New York Times si deduce da un passaggio fondamentale dell’articolo dall’autore anonimo. Quest’ultimo chiarisce, se mai fosse stato necessario, come la sua e quella dei suoi colleghi alla Casa Bianca “non sia la resistenza popolare della sinistra”, ovvero quella che negli USA vede con orrore il razzismo, la violenza e l’inclinazione totalmente pro-business dell’amministrazione Trump.

 

Questa “resistenza”, che molti hanno assimilato al cosiddetto “stato profondo” o “deep state”, è anzi perfettamente in sintonia con “molte delle politiche” di Trump che avrebbero “già reso l’America più sicura e prospera”. Le politiche che andrebbero nella direzione giusta hanno a che fare in primo luogo con il massiccio incremento delle spese militari, ma anche con il colossale taglio alle tasse per i redditi più alti, con il progressivo smantellamento del welfare e la deregolamentazione di ogni settore dell’economia.

 

Il vero problema, suggerisce l’ignoto oppositore interno di Trump, è principalmente la “politica estera” e l’atteggiamento non abbastanza fermo e aggressivo nei confronti di rivali strategici come Russia e Cina, mentre in parallelo vengono messi in discussione rapporti e alleanze consolidate, come con i governi europei.

Come già anticipato, Trump e i suoi fedelissimi hanno accolto l’articolo del Times, così come il libro di Bob Woodward, con estrema irritazione, sia per la gravità del contenuto sia come riflesso di una crisi politica sempre più profonda. Il presidente ha minacciato di ordinare al giornale newyorchese di rivelare la fonte dell’editoriale sulla base delle necessità della “sicurezza nazionale”.

 

In uno dei vari tweet prodotti mercoledì, inoltre, Trump ha sollevato l’ipotesi del “tradimento” da parte dell’anonimo membro della sua amministrazione. La portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, ha invece riservato parole durissime per l’autore del pezzo, definendolo “patetico”, “irresponsabile”, “egoista” e invitandolo a rassegnare le proprie dimissioni.

 

Gli sviluppi di questi giorni a Washington indicano quindi un nuovo aggravarsi del conflitto politico interno, se non altro per il coincidere dei nuovi attacchi contro Trump con importanti eventi che, da un lato, rischiano di umiliare il presidente – come l’imminente assemblea generale dell’ONU – e dall’altro fanno aumentare le pressioni e richiedono decisioni delicate, come l’offensiva militare nella provincia siriana di Idlib pianificata da Mosca e Damasco.

 

Com’è ovvio, le ultime rivelazioni su Trump avranno implicazioni anche sul voto di “metà mandato” del prossimo novembre. Nonostante gli attacchi rischino di trasformarsi in un boomerang per gli oppositori del presidente, è evidente l’intenzione di preparare il campo a un possibile procedimento di “impeachment” nel caso i democratici riuscissero a riconquistare la maggioranza nel nuovo Congresso che si insedierà all’inizio del prossimo anno.