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Dopo una pericolosa escalation di tensioni negli ultimi anni, da qualche tempo Cina e Giappone stanno facendo registrare un netto miglioramento nei rapporti bilaterali. Il fattore che sembra favorire una certa distensione tra i due vicini è prima di tutto l’agenda protezionista dell’amministrazione Trump, intenta a fare pressioni e ad applicare misure commerciali punitive contro entrambi i paesi in nome della pseudo-dottrina nazionalista “America First”.

 

In un’intervista a un giornale locale a inizio settembre, il premier giapponese, Shinzo Abe, aveva salutato il “completo ritorno alla normalità” di una relazione con Pechino che rischiava di precipitare in un vortice di provocazioni e minacce, in larga misura come conseguenza della “svolta” strategica americana in Asia, avviata ai tempi dell’amministrazione Obama.

 

L’abbandono sostanziale del multilateralismo da parte di Trump e le guerre commerciali lanciate precocemente anche contro alleati hanno portato a un rimescolamento strategico in Estremo Oriente come altrove. I primi passi verso la riconciliazione tra Tokyo e Pechino sono così caratterizzati da un’impronta polemica verso gli USA.

 

A confermarlo sono le varie dichiarazioni di esponenti di entrambi i governi in occasione di incontri bilaterali o nel quadro di summit aperti ad altri paesi. A fine agosto, il ministro delle Finanze nipponico, Taro Aso, in visita a Pechino aveva ad esempio avvertito, in un chiaro messaggio a Washington, che “il protezionismo non favorisce nessun paese”. Nel corso del recentissimo Forum dell’Asia Orientale, ospitato da Putin a Vladivostok, al termine di un faccia a faccia con il presidente cinese, Xi Jinping, Abe ha inoltre affermato che Giappone e Cina “hanno la responsabilità di promuovere la stabilità globale” e di giungere alla “denuclearizzazione della Corea del Nord”.

 

Proprio sul processo diplomatico in corso tra Washington e Pyongyang il governo giapponese si era trovato inizialmente spiazzato e continua tuttora a manifestare malumori. Secondo la stampa americana, Abe sarebbe stato escluso da ogni decisione presa dall’amministrazione Trump sulla Nordcorea.

 

Ufficialmente, le ansie di Tokyo sarebbero da collegare all’ipotesi che gli USA finiscano per accettare che Kim Jong-un conservi i propri missili nucleari a breve raggio, cioè in grado potenzialmente di colpire il Giappone, in cambio della distruzione degli ordigni in teoria capaci di colpire le città americane. In realtà, a pesare sull’irritazione di Abe è la prospettiva che la Corea del Nord cessi di essere dipinta come una minaccia alla sicurezza della regione, così da privare il suo governo di una delle principali giustificazioni per il processo di militarizzazione in atto a Tokyo.

 

Il primo ambito nel quale lo scontro, non solo retorico e diplomatico, ha fatto segnare un abbassamento dei toni tra Cina e Giappone è comunque quello della disputa territoriale attorno alle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, controllate da Tokyo e rivendicate da Pechino. Su questa disputa i due paesi avevano rischiato in più occasioni il conflitto negli anni scorsi, soprattutto a causa dell’utilizzo delle contese marittime e territoriali da parte americana come leva per inasprire i rapporti tra la Cina e svariati paesi vicini.

 

Il lamento comune di Pechino e Tokyo nei confronti di Washington riguarda invece la politica commerciale dell’amministrazione Trump. La Cina ha già dovuto subire l’aumento dei dazi americani sulle proprie esportazioni verso gli USA per un valore di 50 miliardi di dollari. A breve, dopo che Pechino avrà inevitabilmente ignorato le richieste USA, la Casa Bianca potrebbe applicare nuove tariffe doganali su altri 200 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina.

 

Il Giappone, da parte sua, è stato colpito dall’incremento dei dazi americani su acciaio e alluminio. Soprattutto, a differenza di altri alleati di Washington, il governo Abe si è visto respingere la richiesta di esenzione da queste stesse tariffe. Il business e la classe politica nipponica sono anche in fermento per le possibili misure punitive minacciate da Trump sulle esportazioni di automobili verso gli Stati Uniti.

 

Ancora prima dell’insediamento ufficiale alla Casa Bianca di Trump, Abe aveva cercato in tutti i modi di costruire un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione repubblicana, mentre ancora oggi sono evidenti gli sforzi di ostentare la solida alleanza che lega il suo paese agli USA. Fin dall’inizio del mandato di Trump, tuttavia, erano emerse chiare tensioni tra Washington e Tokyo.

 

Anzi, proprio nelle prime settimane della presidenza Trump era arrivata probabilmente l’iniziativa più penalizzate per il Giappone, cioè il ritiro degli Stati Uniti dal controverso mega-trattato di libero scambio noto come Partnership Trans Pacifica (TPP). Abe aveva investito buona parte del proprio capitale politico per far digerire, soprattutto alla base rurale del proprio partito, un accordo che molti in Giappone ritenevano dannoso per l’economia del paese.

 

L’ingresso nel TPP a guida americana era visto inoltre dalla classe dirigente nipponica come il veicolo per la promozione dei propri interessi e delle ambizioni da grande potenza, com’è ovvio nel quadro della competizione con la Cina, significativamente esclusa dal trattato stesso. La decisione di Trump aveva insomma gettato le basi per le successive frizioni tra USA e Giappone. In seguito il governo di Tokyo - assieme a quello australiano, altro alleato storico di Washington - si sarebbe fatto promotore del rilancio di un TPP rivisto e orfano degli Stati Uniti.

 

In modo ancora più significativo, Abe ha aperto ai progetti infrastrutturali, commerciali e di integrazione che sono al centro delle politiche di sviluppo cinesi. Nell’ambito dei trattati di libero scambio, il Giappone ha accolto l’invito a entrare nella Partnership Economica Regionale Comprensiva (RCEP), considerata da molti come rivale e alternativa cinese del TPP. La RCEP include anche paesi come Australia, Corea del Sud, India e Nuova Zelanda. Tutti i firmatari hanno definito i punti principali dell’accordo in un recente vertice tenuto a Singapore, mentre un’intesa definitiva potrebbe essere raggiunta entro il mese di novembre.

 

Il Giappone, secondo il giornale di Hong Kong South China Morning Post, starebbe poi discutendo l’ipotesi di un trattato bilaterale di libero scambio con Pechino. Quest’ultimo seguirebbe quello da poco stipulato con l’Unione Europea e darebbe ulteriore impulso a una tendenza diametralmente opposta a quella di impronta protezionista del governo di Washington.

 

Alla luce di questi sviluppi è inevitabile che Tokyo abbia infine riconsiderato il proprio approccio al colossale piano di integrazione euro-asiatica cinese, noto col nome di Belt and Road Initiative (BRI). Il Giappone, in sintonia con gli USA, aveva nel recente passato ostacolato e cercato di boicottare i progetti di Pechino in questo senso, proponendosi tra l’altro come partner strategico-militare o come investitore alternativo alla Cina in svariati paesi nell’orbita della BRI.

 

Sotto la spinta delle dinamiche già esposte, invece, il governo Abe sembra ora guardare con interesse alla “nuova Via della Seta” cinese. Nel mese di ottobre, lo stesso primo ministro dovrebbe recarsi in visita a Pechino, dove è prevista la firma di una serie di accordi per la realizzazione di progetti che rientrano nel quadro della BRI. La natura di questi accordi, se implementati, rappresenta un salto qualitativo nei rapporti sino-giapponesi e prospetta benefici cruciali per i piani di Pechino, a fronte degli ostacoli che gli Stati Uniti stanno cercando di creare in tutti i modi.

 

Il think tank americano Stratfor, notoriamente legato agli ambienti dell’intelligence, in un’analisi pubblicata nei giorni scorsi sul proprio sito ha portato come esempio della partnership tra Cina e Giappone all’interno della BRI la realizzazione di linee ferroviarie ad alta velocità in Thailandia. Secondo Stratfor, una “joint venture col Giappone in un paese terzo segnerebbe un passo avanti negli sforzi cinesi di coinvolgere altre potenze, soprattutto tra i paesi avanzati, nei progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiative”. La partecipazione del Giappone tornerebbe cioè utile in primo luogo per controbattere alle polemiche sull’espansionismo cinese e per superare resistenze e perplessità dei paesi che rientrano nella rete commerciale e strategica pianificata dalla Cina.

 

Nonostante il relativo disgelo, persistono numerosi fronti sui quali Tokyo e Pechino continuano a essere rivali strategici. Ciò dipende non solo da questioni storiche, ma anche dall’ambizione, in un clima internazionale sempre più competitivo, della classe dirigente nipponica di perseguire politiche indipendenti a seconda dei propri interessi. L’intenzione di Abe di intraprendere la strada della militarizzazione del paese, tramite una riforma costituzionale annunciata da tempo, è in quest’ottica un segnale delle intenzioni di Tokyo e, assieme, dei pericoli per un futuro scontro diretto con le altre potenze regionali.

 

La stessa influenza destabilizzante dell’amministrazione Trump ha un effetto tutt’altro che univoco sul ricalibramento strategico giapponese. Le pressioni USA sui propri principali rivali su scala globale stanno infatti contribuendo a consolidare una partnership a tutto campo tra Cina e Russia. Un processo, quest’ultimo, che in prospettiva minaccia di ridurre gli spazi di manovra di Tokyo nel trattare o cercare di ottenere concessioni da Pechino, così come dal governo di Mosca.