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Categoria: Esteri

Per la ventisettesima volta, ed ogni volta in forma più netta, la comunità internazionale, rappresentata nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha condannato il blocco politico, commerciale, diplomatico e finanziario con il quale, da quasi sessanta anni, gli Stati Uniti martirizzano il popolo cubano. La condanna del mondo intero ha indossato le vesti dell’indiscutibile: centottantanove paesi hanno infatti votato a favore della mozione presentata da Cuba che chiedeva l’immediata revoca dell’embargo statunitense. Gli unici due voti a favore degli Stati Uniti sono stati quello di Israele e degli stessi Stati Uniti, uniti in un sentiment ideale che, da Guantanamo a Gaza, esprime con chiarezza il senso dei due paesi per i diritti umani.

 

Diversamente dalle 26 precedenti occasioni, benché l’Amministrazione Trump ritenga le Nazioni Unite un luogo inutile quando non dannoso, gli USA hanno deciso di tentare di uscire dall’angolo nel quale sanno di trovarsi ed hanno proposto otto emendamenti. L’intento evidente era di trovare un pertugio, un canale, per stretto che fosse, che portasse dalla loro parte almeno un paese degno di essere indicato come significativo nella comunità internazionale. Operazione fallita: nemmeno i suoi alleati latinoamericani hanno seguito Washington, anche all’obbedienza c’è un limite.

 

 

Il voto ONU non cambierà la politica della Casa Bianca verso Cuba: da quasi sessanta anni l’isteria statunitense ha scelto l’embargo totale come modello di una relazione di guerra contro un paese con cui non è in guerra. Il bloqueo, come lo chiamano i cubani, è un regime sanzionatorio permanente, un dispositivo composto da una serie di leggi, norme e regolamenti, studiati nei minimi dettagli ed aggiornati ogni volta che se ne vede l’opportunità per recare il maggior danno possibile a Cuba. Il bloqueo produce miliardi di dollari di danni all’economia cubana e vite innocenti perse in nome di una vendetta storica, ma si è rivelato completamente inutile, prima che anacronistico e criminale. Se voleva piegare Cuba, non c’è riuscito; se voleva metterne l’economia e la società in ginocchio,ha fallito; se pensava di determinare un regime-change, addirittura ha ottenuto l’effetto opposto. E se, per cinico calcolo, invero errato, avesse ritenuto che dopo Fidel Castro Cuba avrebbe ceduto, la scommessa è stata persa.

 

Gli Stati Uniti, nel tentativo di difendere l’indifendibile, sostengono che il blocco è in realtà un embargo e che, come tale, è scelta di politica interna statunitense, con ciò indicando una inabilità dell’Onu al giudizio. Ma è facile constatare come la pretesa sia del tutto fuori luogo. Perché se pure è vero che la scelta d’istituire il blocco è frutto di scelte di politica interna statunitense, le innumerevoli conseguenze dello stesso coinvolgono invece l’intera comunità internazionale, colpita dall’extraterritorialità delle disposizioni previste dalle leggi Torricelli e Helms-Burton, che sono la cornice giuridico-legislativa all’interno della quale l’aggressione all’isola caraibica si estende anche al resto della comunità internazionale. La legge Torricelli e la Helms-Burton hanno infatti esteso all’intera comunità internazionale il blocco Usa contro Cuba, azzerandone così qualunque dimensione bilaterale per trasformarla in questione internazionale.

 

Infatti, sotto il profilo riguardante le operazioni commerciali e finanziarie, si deve ricordare che qualunque paese al mondo che intrattenga relazioni finanziarie e commerciali con Cuba viene coinvolto. Se, infatti, una qualunque impresa, di qual si voglia paese, dispone di filiali  o consociate nel territorio statunitense o, comunque, realizza iniziative imprenditoriali con imprese statunitensi, ove commerci anche con Cuba può vedersi congelati i fondi e rischia persino l’arresto dei suoi manager (legge Helms-Burton ndr).

 

Dunque, sebbene il blocco sia un insieme di leggi, norme e disposizioni legislative degli Stati Uniti (e, in questo senso, il fatto che si estendano al resto del mondo non ne muta la genesi), l’originaria disposizione di embargo decisa da Kennedy nel 1962 con il Proclama 3447, che ampliò le restrizioni commerciali varate da Eisenhower nell'ottobre 1960, è profondamente mutata nel corso dei decenni, assumendo un’aperta ed illegale connotazione extraterritoriale che la connota da anni come un fulgido esempio di pirateria internazionale. Sarebbe quindi auspicabile che i singoli paesi che per transare e scambiare con Cuba si vedono colpiti nel sistema finanziario da misura unilaterali statunitensi, agissero nei confronti degli Stati Uniti utilizzando il criterio di reciprocità, garantito da tutte le convenzioni internazionali.

 

Proprio quindi per la sua extraterritorialità, oltre che per l’ossessivo minuzioso dettaglio delle sanzioni (a Cuba e a terzi) oggetto dei numerosi dispositivi ad esse collegate, definire il blocco come embargo è sbagliato; come minimo è perniciosamente riduttivo, incongruo rispetto alle dimensioni, la durata, l’extraterritorialità dei provvedimenti e alle conseguenze che ha provocato e che provoca tanto all’isola come al resto della comunità internazionale. E il fatto che le misure siano prese ai danni di un paese con il quale formalmente non vige uno stato di guerra, rende il tutto solo più vergognoso e ingiustificabile. Per i suoi obiettivi, per la sua portata e per i mezzi impiegati per ottenerli, il blocco degli Stati Uniti contro Cuba si qualifica come un atto di genocidio, in base a ciò che sancisce la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio del 9 dicembre 1948, oltre che come atto di guerra economica, in base alla Conferenza Navale di Londra del 1909.

 

Dunque si deve parlare di blocco e non di embargo. L’embargo, infatti, è solitamente usato come misura esclusivamente commerciale a carattere temporaneo, mentre nel caso di Cuba il blocco si regge su un insieme di leggi, decreti presidenziali e misure amministrative interne ed estere che comportano una guerra di tipo politico, commerciale, finanziario e giuridico sull’intero teatro internazionale, cui si aggiungono operazioni d’intelligence, militari e di sostegno diretto e dimostrato ad attività terroristiche.

 

Ma il bloqueo non ha solo l’aspetto internazionale, anche i riverberi interni sono degni di attenzione. Ci si potrebbe chiedere: perché, dati i quasi sessanta anni di vigenza del blocco e reiterata la sua inutilità nei confronti dei fini dichiarati, si procede ancora nella stessa politica, infischiandosene della mancanza di risultati e persino della riprovazione internazionale oltre che dei danni provocati alle stesse imprese Usa, che si vedono private di relazioni commerciali in un’area territorialmente vicina?

 

Perché - e questo è l’unico elemento di verità nella posizione Usa - il blocco contro Cuba rappresenta un aspetto importante della politica interna: la vittoria elettorale in Florida, Stato decisivo per le elezioni alla Casa Bianca, è legata al livello di alleanza tra i due partiti con la lobby terroristico-mafiosa cubano-americana con sede a Miami (anche se in forma ridotta rispetto al passato). E poi c'è il denaro. Le centinaia di milioni di dollari veicolati dalla NED, dall’USAID e dalla stessa CIA, che corrono sull’onda dei progetti spionistici contro Cuba definiti elegantemente come “fondi per la democrazia a Cuba”, fanno gola al piccolo esercito di politici e affaristi della Florida che ne utilizzano buona parte per incrementare i loro collegi elettorali. Le attività contro Cuba muovono centinaia di milioni di dollari l’anno ed intorno ad esse si muovono un’insieme di figure e di strutture che dello scontro contro Cuba, ad ogni livello, ne hanno fatto un business lucroso e permanente.

 

E non si tratta nemmeno solo di questo. Ad un livello diverso, peraltro maggiormente preoccupante, risulta ulteriormente determinante nel mantenimento del blocco l’intreccio ricattatorio tra le agenzie militari e spionistiche statunitensi e le organizzazioni terroristiche dei fuoriusciti cubani, manovalanza storica delle covert action degli Stati Uniti in Centro e Sud America. Un’eventuale e definitiva inversione di rotta degli Usa, che abolisse il blocco e riportasse l’interesse nazionale al centro della politica regionale, comporterebbe in automatico una generale disoccupazione per il conglomerato blocco terroristico-mafioso cubano-americano, che potrebbe reagire scoperchiando il velo di segretezza che copre le nefandezze spionistiche e terroristiche di Washington nel continente (e non solo). Il messaggio inviato da Dallas a Washington nel 192 si sente ancora forte e chiaro.