La gravità della situazione, in cui il ripristino delle sanzioni americane contro la Repubblica Islamica rischia di gettare il Medio Oriente e non solo, è stata riassunta lunedì da una dichiarazione del presidente, Hassan Rouhani, il quale ha parlato esplicitamente di “scenari di guerra” provocati dal comportamento dell’amministrazione Trump.

 

Rouhani ha anche paragonato la minaccia degli Stati Uniti a quella dell’Iraq del conflitto negli anni Ottanta, accostando Trump all’allora leader di quest’ultimo paese, Saddam Hussein. Nel respingere le manovre americane per azzerare l’export di greggio, il presidente iraniano, riconducibile alla fazione moderata dell’establishment della Repubblica Islamica, ha assicurato che il petrolio continuerà a essere venduto e che le sanzioni “verranno infrante”.

 

 

La prevedibile escalation dei toni dello scontro tra Washington e Teheran lascia intravedere poche alternative a un conflitto rovinoso per il raggiungimento degli obiettivi della Casa Bianca nella reimposizione delle sanzioni sospese con l’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA). Il ritorno al passato della politica iraniana degli USA è d’altra parte e in primo luogo un tentativo di raccogliere una coalizione o, meglio, di mettere assieme un fronte di paesi alleati che contrasti, se necessario anche militarmente, l’influenza di Teheran in Medio Oriente.

 

La decisione di Trump è comunque l’ennesimo provvedimento preso al di fuori di qualsiasi logica o legittimità legale e, oltre ad acuire in maniera pericolosa le tensioni con l’Iran, si scontra frontalmente con gli interessi di molti paesi alleati, a cominciare dall’Europa. Da qui, come hanno messo in luce numerosi osservatori, deriva l’importanza cruciale del ritorno a un regime di sanzioni contro la Repubblica Islamica, tanto da comportare potenzialmente uno stravolgimento del ruolo strategico degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale.

 

La delicatezza e la complessità della scommessa di Trump sono evidenti anche dalla sola questione delle esenzioni dall’applicazione delle sanzioni, concesse o negate ad alcuni paesi che importano petrolio dall’Iran in quantità più o meno massicce. Un totale di otto paesi, inclusa l’Italia, potrà continuare a importare greggio dall’Iran senza incorrere nelle sanzioni USA. Queste eccezioni riguardano paesi che hanno legami commerciali e strategici tradizionalmente solidi con Teheran, come la Cina, oppure, come Turchia, Corea del Sud, India o Giappone, che rischiano di subire pesanti contraccolpi economici nel caso dovessero interrompere le forniture di petrolio dall’Iran.

 

Tutte le esenzioni sono però di natura temporanea. La Casa Bianca sostiene che dopo il marzo 2019 non ci saranno ulteriori proroghe, così che i possibili stravolgimenti del mercato energetico causati da Washington sembrano essere solo rimandati. Non solo, all’interno dell’amministrazione Trump vi erano richieste per respingere qualsiasi eccezione alle sanzioni. La fazione dei “falchi” fa capo al consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, il quale, dopo avere in più di un’occasione invocato il cambio di regime a Teheran, continua a essere tra i più accesi oppositori di qualsiasi concessione all’Iran.

 

Uno dei dati più significativi è senza dubbio la mancata esenzione dalle sanzioni concessa all’Europa. La portata destabilizzante delle politiche mediorientali della Casa Bianca era chiara fin dal mese di maggio, quando Trump aveva annunciato l’uscita del suo paese dal JCPOA. Da allora e ancora nei giorni scorsi, l’Europa ha espresso la ferma intenzione di opporsi alle sanzioni americane e, soprattutto, di creare un meccanismo per bypassare le misure punitive e continuare ad avere rapporti e fare affari con la Repubblica Islamica.

 

Vari leader europei hanno evidenziato la necessità di avere a disposizione uno strumento che consenta di processare le transazioni finanziarie con l’Iran, senza passare attraverso quelli tradizionali, in larga misura controllati dagli Stati Uniti. Un sistema di questo genere minaccia seriamente il predominio del dollaro, con implicazioni che vanno ben al di là del solo ambito finanziario, accelerando le forze centrifughe e le spinte multipolari già ampiamente in atto a livello planetario.

 

A preoccupare ancora di più il governo di Washington è anche la dichiarata apertura ad altri paesi, come Russia e Cina, per l’uso degli eventuali strumenti che l’Europa e l’Iran adotteranno per aggirare le sanzioni americane. Non solo, le nuove relazioni finanziarie e commerciali che potrebbero essere così regolamentate non saranno necessariamente limitate all’Iran e alle transazioni petrolifere.

 

Questi sviluppi fanno da sfondo allo scontro con l’Iran e contribuiscono a spiegare la linea dura della Casa Bianca nei confronti dell’Europa. In gioco vi sono cioè alcuni dei fattori fondamentali che sostengono la residua supremazia degli Stati Uniti a livello internazionale. Per i governi europei, a loro volta, l’irremovibilità di Washington sulla questione iraniana rappresenta il superamento di una linea rossa che rischia di mettere a repentaglio i loro interessi e la stessa possibilità di perseguire politiche economiche e strategiche indipendenti.

 

Quel che è certo è che la scelta di Trump di tornare al muro contro muro con Teheran costituisce un punto di non ritorno. A meno di una clamorosa marcia indietro da parte dell’Europa, ma anche di altri paesi colpiti indirettamente dalle sanzioni come India o Turchia, il tentativo di isolare l’Iran rischia di trasformarsi in un fallimento con la conseguente ulteriore erosione dell’influenza americana nel mondo. L’alternativa a questo scenario è difficilmente individuabile se non in una guerra dalle conseguenze incalcolabili.

 

Il ritorno delle sanzioni porta con sé anche altre complicazioni per la visione unilaterale del mondo dell’amministrazione Trump e degli ambienti ultra-nazionalisti a cui essa fa riferimento. Ad esempio, come ha fatto notare in questi giorni un membro dello staff dell’ex presidente Obama, le restrizioni imposte all’industria petrolifera iraniana faranno probabilmente aumentare il peso della Russia in questo ambito.

 

Ancora, se Washington intende realmente cancellare entro marzo qualsiasi esenzione dalle sanzioni, sarà interessante verificare quali saranno le reazioni di alleati come Giappone, Turchia e, soprattutto, India. Nel caso di quest’ultimo paese, non è chiaro fino a dove la Casa Bianca vorrà spingersi, mettendo a rischio una partnership in fase di consolidamento da oltre un decennio e al centro della strategia americana di contenimento della Cina.

 

Tutte queste complicazioni, con in testa quella relativa ai rapporti sempre più agitati con l’Europa, preoccupano fortemente quelle sezioni dell’apparato di potere americano che si oppongono a Trump. Le critiche interne all’amministrazione repubblicana per l’uscita dal JCPOA sono infatti continue e si sovrappongono in queste settimane ai timori per un comportamento che rischia appunto di favorire i processi di integrazione euroasiatica già di per sé in atto e da cui gli Stati Uniti risultano esclusi.

 

L’intenzione della Casa Bianca è comunque di proseguire sulla strada dello scontro anche con gli alleati per cercare disperatamente di invertire il declino internazionale americano e ostacolare la creazione di centri di potere alternativi o competitivi.

 

Per il momento, d’altra parte, la nascita del già ricordato sistema di transazioni finanziarie promosso da Bruxelles e Teheran per aggirare le sanzioni USA è ancora avvolta nel mistero, mentre Trump e il suo entourage sembrano essere incoraggiati dalla decisione, annunciata da tempo, di numerose grandi compagnie private occidentali di rinunciare ad operare in Iran per evitare di essere penalizzate dalle sanzioni americane.

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