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Gli abitanti dell’arcipelago della Nuova Caledonia hanno bocciato nello scorso fine settimana un referendum che offriva loro la possibilità di ottenere la piena indipendenza dalla Francia. Il risultato ha confermato una profonda spaccatura tra i residenti indigeni di questo territorio del Pacifico meridionale e quelli originari della madrepatria, mentre a favore dello status quo si era schierato praticamente l’intero panorama politico transalpino.

 

La Nuova Caledonia è amministrativamente una “collettività d’oltremare” della Francia e i rapporti con quella che rimane di fatto la potenza coloniale sono regolati dagli accordi di Matignon del 1988 e da quelli di Nouméa, stipulati dieci anni più tardi. L’arcipelago gode già di una certa autonomia, ma Parigi conserva il controllo sulle questioni monetarie, su quelle giudiziarie, della difesa, dell’ordine pubblico e degli affari esteri.

 

 

A favore del mantenimento dei legami con la Francia si è espresso quasi il 57% dei votanti, ma le ultime fasi della campagna elettorale hanno visto un consistente aumento delle preferenze per l’opzione indipendentista. Il distacco totale da Parigi era ed è sostenuto soprattutto dalla popolazione autoctona dei Canachi e dai movimenti politici che li rappresentano, come il Fronte di Liberazione Nazionale Socialista (FLNKS).

 

Gli indigeni neocaledoniani costituiscono poco meno della metà dei circa 275 mila abitanti e vivono per la maggior parte in condizioni più disagiate rispetto alla popolazione di origine europea. In un referendum tenuto nel 1987, boicottato dal FLNKS, la piena indipendenza era stata già respinta dal 98% dei votanti.

Secondo quanto previsto dagli accordi di Nouméa, considerati come una sorta di “roadmap” per la de-colonizzazione della Nuova Caledonia, la popolazione dell’arcipelago del Pacifico ha la possibilità di indire tre referendum per l’indipendenza entro il 2022.

 

Il primo è stato quello di domenica scorsa, il secondo potrà essere indetto nuovamente nel 2020 e, nel caso venisse anch’esso bocciato, un eventuale terzo si terrà due anni più tardi. Queste condizioni vorrebbero essere cancellate dagli anti-indipendentisti, alcuni dei quali chiedono un intervallo di tempo di almeno 25 anni tra un voto e l’altro, anche se ciò richiederebbe una modifica costituzionale.

 

La facoltà di organizzare referendum per l’indipendenza non è comunque una benevola concessione della classe dirigente francese. Questa e altre condizioni furono inserite nei già ricordati accordi di Matignon e di Nouméa, seguiti all’esplosione di tensioni sociali che, nel 1988, provocarono gravi scontri sull’arcipelago, nei quali persero la vita 23 persone, tra cui 21 indigeni. Complessivamente, negli anni Ottanta del secolo scorso si contarono una settantina di morti in svariati incidenti tra Canachi e forze di sicurezza agli ordini di Parigi.

 

Oltre ai referendum, gli accordi istituirono anche una serie di programmi volti a integrare una minima parte della popolazione autoctona nelle strutture economiche e di potere delle isole, in modo da contenere il più possibile le spinte destabilizzanti causate dalle disparità sociali e di reddito provocate dall’emarginazione dei Canachi.

 

La Nuova Caledonia divenne un possedimento francese a metà del XIX secolo e fu a lungo utilizzata come colonia penale. La popolazione che vi abitava venne da subito sottoposta a discriminazioni e confinata in riserve dopo essere stata privata delle proprie terre. La convivenza con le forze coloniali fu perciò tutt’altro che pacifica, come confermano le numerose rivolte verificatesi a cavallo dei due secoli.

 

Visto il rapporto di dipendenza con la Francia, è tutt’altro che sorprendente che la maggioranza degli abitanti della Nuova Caledonia abbia scelto ancora una volta di mantenere i legami con la madrepatria. Buona parte dell’economia di questo territorio è sostenuta infatti da sussidi provenienti da Parigi, pari a circa 1,3 miliardi di euro l’anno.

 

La Francia è però ampiamente ripagata dalla possibilità di controllare un territorio di particolare importanza economica e strategica. La Nuova Caledonia è ad esempio uno dei principali produttori mondiali di nickel, fondamentale per l’industria bellica, e di cobalto. Dei tre impianti che qui processano il nickel, uno è di proprietà dello stato francese, il quale può controllare tutta la produzione e la distribuzione di questo metallo estratto sull’arcipelago.

 

L’interesse della classe dirigente francese per la Nuova Caledonia è da collegare anche al crescente rilievo che l’area del Pacifico meridionale sta assumendo in parallelo all’espansione, di natura prevalentemente economica, della Cina in quest’area.

 

La Francia, sia in maniera autonoma sia in collaborazione con alleati come gli Stati Uniti o con l’Australia, sta lavorando per creare una vera e propria barriera che ostacoli la penetrazione cinese nelle ex aree coloniali del Pacifico. Da un punto di vista militare, inoltre, isole come quelle che formano la Nuova Caledonia diventerebbero fondamentali in caso di conflitto con Pechino.

 

Questi aspetti erano emersi nel corso della visita nel maggio scorso del presidente francese Macron proprio in Nuova Caledonia e in Australia. Con l’allora primo ministro australiano, Malcolm Turnbull, il numero uno dell’Eliseo aveva promosso la creazione di “un asse indo-pacifico” per difendere “i nostri interessi economici e la nostra sicurezza”. Se Macron non aveva fatto alcun riferimento minaccioso esplicito alla Cina, era comunque evidente che l’obiettivo principale del progetto risultava essere precisamente la seconda potenza economica del pianeta.

 

Le mire francesi nell’oceano Pacifico avevano avuto infine un impulso decisivo già nel 2016 proprio grazie alla Nuova Caledonia. Questo territorio, assieme alla Polinesia francese, era stato in quell’anno ammesso nel Forum delle Isole del Pacifico (PIF), un organo fino a quel momento formato solo da paesi sovrani e indipendenti. Grazie alle pressioni dell’allora presidente Hollande, Parigi aveva ottenuto un risultato senza precedenti, consentendo alla Francia di far sentire la propria voce negli affari di un’area strategicamente sempre più importante per gli equilibri del continente asiatico e dell’intero pianeta.