Le elezioni americane di metà mandato hanno restituito nella giornata di martedì una serie di risultati tutt’altro che univoci, in conseguenza dell’ampiezza e dell’estrema eterogeneità delle competizioni in programma e delle tematiche politiche all’ordine del giorno. Alcuni dei dati cruciali del voto sono apparsi tuttavia chiari e hanno in larga misura a che fare, da un lato, con la crescente ostilità nei confronti dell’amministrazione Trump e, dall’altro, con l’incapacità da parte del Partito Democratico di proporsi come reale alternativa democratica a una deriva autoritaria sempre più evidente nel panorama politico degli Stati Uniti.

 

 

A differenza delle presidenziali del 2016, le elezioni di “midterm” di quest’anno non hanno smentito i sondaggi delle ultime settimane, quanto meno in termini generali. I democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti dopo otto anni all’opposizione, mentre hanno fallito al Senato, dove anzi i repubblicani chiuderanno con un aumento del numero di seggi nelle loro mani.

 

Alla Camera, il Partito Democratico ha fatto registrare un guadagno netto di seggi superiore ai 23 necessari a ribaltare gli equilibri attuali. La tendenza sfavorevole ai repubblicani in questo ramo del Congresso di Washington era chiara da tempo ed aveva assunto la sua forma più evidente nella disparità di denaro a disposizione delle campagne elettorali dei candidati appartenenti ai due schieramenti.

 

I democratici avevano cioè un vantaggio evidente nei finanziamenti, grazie solo in parte alla mobilitazione degli elettori comuni e alle loro donazioni di piccola entità. La vera differenza l’hanno fatta i grandi finanziatori, in particolare quelli di Wall Street, i quali, dopo svariati anni, in questa occasione hanno scelto in maggioranza di appoggiare il Partito Democratico.

 

Sintomatico dell’orientamento di quest’ultimo partito è il fatto che la chiave del successo alla Camera è stato il predominio in un certo numero di distretti suburbani, precedentemente rappresentati da repubblicani, con livelli educativi e di reddito relativamente elevati. Questo aspetto è la diretta conseguenza della decisione del Partito Democratico di puntare su battaglie razziali e di genere, generalmente considerate sensibili per la borghesia “liberal”, piuttosto che economiche e di classe.

 

Decisamente meno convincente è stata al contrario la performance democratica nei distretti rurali e in quelli dove prevale la “working-class” e con condizioni di vita più disagiate. Qui l’ondata trumpiana ha sostanzialmente tenuto, a conferma del relativo successo del populismo di destra della Casa Bianca nelle aree socialmente ed economicamente più problematiche degli Stati Uniti in una situazione di vuoto nella sinistra americana “ufficiale”.

 

La nuova maggioranza democratica che a gennaio si insedierà alla Camera non prospetta dunque una svolta progressista né un particolare freno alle politiche ultra-reazionarie di Trump e dei repubblicani. A confermarlo è stata la leadership quasi ottuagenaria del partito che diventerà a breve maggioranza alla Camera, al cui vertice rimane la futura “speaker” Nancy Pelosi, subito impegnata ad assicurare un’attitudine bipartisan e collaborativa con i colleghi repubblicani.

 

Questa dinamica era d’altra parte ipotizzabile già dai toni della campagna elettorale. La maggior parte dei candidati democratici, così come i leader del partito, aveva infatti mantenuto un sostanziale silenzio sulle posizioni sempre più aggressive, anti-democratiche e dall’impronta xenofoba del presidente Trump.

 

Complessivamente, visti i precedenti delle elezioni di metà mandato e il grado di impopolarità dell’inquilino della Casa Bianca, il risultato dei democratici non appare esattamente come un trionfo. Allo stesso modo, la probabile marginalizzazione dell’ala progressista del partito, che martedì ha ottenuto solo parziali successi a livello nazionale e locale, assieme al conseguente mancato ricambio generazionale ai vertici, finirà probabilmente per beneficiare l’amministrazione Trump da qui alle presidenziali del 2020.

 

A differenza della Camera, dove erano in palio tutti e 435 i seggi, al Senato la competizione ne riguardava solo 35 su 100. I democratici partivano qui da una posizione di svantaggio, dovendo difendere numerosi candidati in stati vinti da Trump nel 2016 e, per puntare alla maggioranza, strappare nel contempo qualche seggio occupato da senatori repubblicani.

 

I tre democratici più vulnerabili erano i “moderati” Joe Donnelly (Indiana), Heidi Heitkamp (North Dakota) e Claire McCaskill (Missouri) e tutti sono stati sconfitti piuttosto nettamente dopo avere condotto campagne elettorali in buona parte appiattite sulle posizioni della Casa Bianca, comprese quelle profondamente anti-democratiche relative all’immigrazione. Dopo un conteggio prolungato delle schede, il democratico del Montana, John Tester, è riuscito a conservare il suo seggio, sia pure di misura. In uno dei pochi altri episodi favorevoli ai democratici nella corsa per il Senato, il repubblicano in carica per il Nevada, Dean Heller, ha poi ceduto il passo alla sua sfidante, la deputata Jacky Rosen.

 

I candidati democratici hanno fallito anche l’obiettivo di sconfiggere i repubblicani in stati cruciali e dal valore simbolico, come la Florida e il Texas. In quest’ultimo stato, però, la vicenda del democratico Beto O’Rourke ha messo in luce alcuni fattori interessanti. Partito da una posizione di netto svantaggio sul senatore in carica, Ted Cruz, in uno stato dominato dai repubblicani e il cui elettorato è considerato largamente conservatore, il deputato democratico si è presentato con un’agenda progressista e ha finito per sfiorare una clamorosa vittoria.

 

Nel complesso, il voto di martedì ha mostrato un Partito Repubblicano sempre più modellato sul presidente Trump e, di conseguenza, tendente ulteriormente a destra in parallelo al radicalizzarsi dello scontro politico e sociale nel paese. Nelle già ricordate competizioni in Missouri, North Dakota e Indiana, così come in Tennessee, i neo-senatori repubblicani sono ad esempio tutti considerati fedelissimi di Trump e nel corso delle rispettive campagne elettorali avevano ottenuto l’appoggio esplicito del presidente.

 

La stessa funzione di argine contro la Casa Bianca, invocata da media e commentatori “mainstream” alla chiusura delle urne e che dovrebbero svolgere i democratici alla Camera, rischia inoltre di trasformarsi in una battaglia in prevalenza da destra contro il presidente. Non è difficile immaginare infatti una leadership democratica impegnata, nei prossimi mesi, a intensificare la caccia alle streghe del “Russiagate”, con l’obiettivo di calibrare la politica estera di Washington su posizioni sempre più ostili al governo di Mosca.

 

Oltre che per il Congresso, martedì negli USA si è votato anche per una lunga serie di referendum, per il rinnovo di decine di parlamenti statali e per eleggere 36 governatori. Per queste ultime cariche, i democratici hanno fatto segnare un certo recupero, togliendo ai repubblicani la guida di alcuni stati finora nelle loro mani.

 

Il risultato maggiormente di rilievo è stato forse quello del Kansas. In questo stato del Midwest, il candidato a governatore per i democratici ha sconfitto il repubblicano di estrema destra Kris Kobach, appoggiato da Trump e in prima linea nella guerra ai migranti. Il Partito Democratico ha tuttavia fallito gli obiettivi principali, lasciando ai repubblicani la guida di Florida e Ohio, stati tradizionalmente decisivi nelle presidenziali e quindi ambiti in vista del voto del 2020.

Nel tirare le somme del voto di martedì, qualche barlume di speranza è ad ogni modo trapelato da un quadro altrimenti sconfortante e all’insegna della reazione. I segnali più incoraggianti sono sembrati essere due in particolare.

 

Il primo è l’affluenza insolitamente elevata per un’elezione di metà mandato, sostenuta soprattutto dagli elettori più giovani, stimolati dal desiderio di contrastare le politiche di destra della Casa Bianca. L’altro è da ricercare invece in un referendum approvato in Florida, dove con una nettissima maggioranza gli elettori hanno finalmente cancellato una disposizione anti-democratica della costituzione dello stato che negava il diritto di voto in maniera irreversibile a chiunque avesse una condanna sulle spalle. Questa norma ha implicazioni politiche e democratiche non indifferenti, visto che riguarda circa un milione e mezzo di residenti della Florida che hanno già scontato la loro pena, poco meno della metà dei quali afro-americani.

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