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Categoria: Esteri

La visita di questa settimana a Damasco del presidente sudanese, Omar al-Bashir, è stata la dimostrazione più evidente del possibile inizio di un processo di normalizzazione dei rapporti tra i paesi arabi e il governo siriano, del quale erano emersi finora soltanto alcuni timidi segnali. Bashir è il primo leader arabo a recarsi in Siria dall’inizio della guerra nel 2011 e il suo incontro dai toni cordiali con il presidente Assad è tanto più significativo se si considerano le posizioni che il regime del Sudan aveva assunto nei confronti di Damasco negli anni scorsi.

 

 

Nel 2014, Bashir aveva esplicitamente invitato Assad ad andarsene per evitare di essere assassinato, mentre due anni più tardi si era unito al coro internazionale di minacce militari nel pieno della battaglia per la liberazione di Aleppo. Non solo, il Sudan aveva operato una scelta di campo chiara nel 2015, inviando un contingente militare a partecipare alla guerra di aggressione contro lo Yemen scatenata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

 

Vista la posizione internazionale precaria del Sudan, è evidente che le scelte di politica estera del suo leader, già incriminato dalla Corte Penale Internazionale con l’accusa di genocidio, sono state dettate prevalentemente da ragioni di opportunismo. In primo luogo, ciò è da collegare alle pressioni del regime saudita che, infatti, in cambio della linea dura nei confronti di Damasco ha nell’ultimo anno ottenuto un certo alleggerimento delle sanzioni americane imposte al Sudan.

 

Proprio i legami tra il regime di Khartoum e Riyadh rendono tuttavia la recente visita di Bashir a Damasco particolarmente interessante, essendo secondo svariati osservatori la diretta conseguenza dell’evoluzione del punto di vista dell’Arabia Saudita sulla crisi siriana. Sulla testata on-line Asia Times, il commentatore siriano Sami Moubayed ha sostenuto ad esempio che “Bashir è giunto a Damasco con un messaggio di benevolenza” della casa regnante saudita, nonostante quest’ultima sia stata tra i principali finanziatori dell’opposizione armata al regime di Assad.

 

Bashir e Assad, al termine del loro incontro, si sono detti d’accordo sulla necessità di creare “nuovi principi per le relazioni inter-arabe”, le quali devono essere “basate sul rispetto della sovranità dei singoli paesi e della non-interferenza nei loro affari interni”. Queste parole sembrano contraddire integralmente le manovre internazionali contro Assad degli ultimi sette anni ma, ancor più delle dichiarazioni ufficiali, a contare in questo senso è l’atteggiamento saudita che a molti sembra essere improntato sempre meno alla ricerca del cambio di regime a Damasco.

 

La mutata disposizione di Riyadh è motivata da questioni di ordine pratico. Il sostegno garantito ad Assad dai suoi alleati, a cominciare dalla Russia, ha cioè a poco a poco creato una realtà sul campo per la quale il governo legittimo siriano ha potuto stabilizzarsi e riprendere il controllo sulla gran parte del proprio territorio.

 

Oltre a ciò, il mutato quadro strategico mediorientale di questi anni ha spinto con ogni probabilità l’Arabia Saudita dell’erede al trono, principe Mohammed bin Salman (MBS), a riconsiderare i propri calcoli in relazione al teatro siriano. I cambiamenti hanno a che fare soprattutto con il ruolo sempre più importante ricoperto dalla Turchia nel mondo musulmano sunnita e con la rivalità crescente tra Ankara e Riyadh.

 

In sostanza, il fallimento delle operazioni di “regime change” a Damasco ha portato per la monarchia saudita il nodo della supremazia in Medio Oriente su un altro piano. All’orizzonte è apparso così in maniera relativamente improvvisa l’ipotesi di normalizzazione dei rapporti con la Siria di Assad, diventata un terreno di scontro con la Turchia di Erdogan.

 

Una decisione, quest’ultima, che serve dunque a tenere aperto un canale di comunicazione e, possibilmente, a influire sulle scelte di un regime che rimarrà al suo posto ancora a lungo e che non solo potrebbe appianare le divergenze con Ankara, ma che, in questi anni, ha intensificato i propri legami con la cosiddetta “asse della resistenza” sciita (Iran, Hezbollah), ovvero il fronte opposto a quello saudita-israeliano-americano nella regione.

 

I possibili cambiamenti degli indirizzi di politica siriana di Riyadh sono però anche il riflesso di una partnership in fase di consolidamento con la Russia di Putin, i cui risultati sono visibili tra l’altro negli accordi stipulati nell’ultimo anno sulla stabilizzazione della produzione petrolifera nel quadro del cosiddetto “OPEC+”. Il quasi idillio con Mosca e i segnali contrastanti provenienti da Washington, come per il caso Khashoggi, hanno chiaramente spinto la leadership saudita a diversificare le proprie opzioni internazionali. Vista perciò la posizione russa sulla Siria, appare quasi inevitabile il relativo ammorbidimento di Riyadh nei confronti di Damasco, sia pure avvenuto finora in maniera quasi esclusivamente indiretta.

 

Per quanto riguarda ancora la visita del presidente sudanese in Siria, altri osservatori hanno visto piuttosto un tentativo del regime del paese nordafricano di conquistarsi i favori del Cremlino ed essa avrebbe perciò poco a che vedere con la nuova sensibilità saudita nei confronti di Assad. Questa tesi trascura tuttavia gli altri segnali provenienti dal mondo arabo che suggeriscono l’esistenza di un cambiamento in qualche modo coordinato nell’approccio alla questione siriana anziché una serie di eventi senza relazione l’uno con l’altro.

 

Il ghiaccio era stato rotto già nel mese di settembre, quando a margine dell’assemblea delle Nazioni Unite a New York i ministri degli Esteri di Siria e Bahrain erano stati protagonisti di un incontro particolarmente caldo, suggellato da un abbraccio ripreso dalle telecamere e trasmesso dai media di tutto il mondo.

 

Dopo il colloquio, inoltre, il numero uno della diplomazia del Bahrain aveva di fatto riconosciuto la legittimità del governo di Assad e l’imperativo per i paesi arabi di tornare a intrattenere relazioni normali con Damasco. Essendo il Bahrain poco più di un protettorato saudita, era apparso da subito evidente che l’uscita del suo ministro degli Esteri non poteva essere né estemporanea né tantomeno un’iniziativa autonoma.Dietro alle sue parole doveva esserci perciò un input proveniente da Riyadh.

 

Dopo l’evento al Palazzo di Vetro, si sono susseguiti eventi e notizie che hanno rafforzato questa tendenza. Una delegazione del Kuwait ha ad esempio visitato la capitale siriana e, in seguito a un colloquio con Assad, i rappresentanti del piccolo emiro del Golfo Persico hanno avuto parole di elogio per il presidente.

 

Ancora, da qualche tempo si rincorrono le voci di una possibile riapertura dell’ambasciata degli Emirati Arabi a Damasco, mentre recentemente il confine tra Siria e Giordania è stato riaperto, così come la rappresentanza diplomatica di Amman in Siria. La Lega Araba, infine, potrebbe tornare a invitare il governo di Assad al prossimo summit che si terrà in Tunisia nel mese di marzo. Questa organizzazione aveva sospeso la Siria alla fine del 2011 per poi assegnare il seggio all’opposizione anti-Assad due anni più tardi.

 

Lo stesso governo turco ha nuovamente mostrato la propria disponibilità a ristabilire rapporti normali con Damasco. Il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Çavusoglu, lo aveva confermato qualche giorno fa, indicando come unico presupposto l’ottenimento da parte di Assad di un mandato popolare tramite un voto credibile. Nella giornata di lunedì, anche l’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria, James Jeffrey, in un discorso tenuto presso il “think tank” Atlantic Council di Washington ha affermato che il suo governo “non cerca [più] il cambio di regime” a Damasco e che perciò accetta la permanenza di Assad al potere, anche se a determinate condizioni.

 

Simili rassicurazioni provenienti da Washington sono da prendere quanto meno con le molle e, comunque, gli USA non intendono rinunciare alla presenza militare illegale in territorio siriano. Tuttavia, il rappresentante dell’amministrazione Trump è sembrato riconoscere anch’egli una realtà ben diversa da quella di qualche anno fa nel paese mediorientale e nella quale l’obiettivo principale americano non è più quello di rimuovere un regime ostile, perché impossibile nei fatti, bensì di prolungare il conflitto e ostacolare l’espansione dell’influenza russa e iraniana in Medio Oriente.

 

Malgrado i segnali di normalizzazione, la situazione in Siria continuerà a essere tutt’altro che pacifica ancora a lungo. Alcuni scenari restano infatti infuocati nelle aree ancora fuori dal controllo governativo, come a Idlib, dove è arroccata l’ultima significativa sacca di resistenza dell’opposizione fondamentalista, e nel nord-est occupato dagli USA e dalle forze curde.

 

Il processo diplomatico, invece, prosegue a fatica ormai quasi esclusivamente nel formato di “Astana”, cioè tra Russia, Iran e Turchia. I rappresentanti dei tre governi hanno tenuto un vertice martedì a Ginevra e, alla presenza dell’inviato speciale dell’ONU uscente, Staffan de Mistura, hanno finalizzato l’intesa per la creazione di una speciale commissione incaricata di scrivere una nuova carta costituzionale per il paese in guerra ormai da quasi otto anni.