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La fine dello “shutdown” e la riapertura degli uffici governativi nel fine settimana ha probabilmente solo rinviato una possibile escalation dello scontro politico negli Stati Uniti tra il presidente Trump e i suoi oppositori del Partito Democratico. Anche se la Casa Bianca ha alla fine deciso di cedere sullo sblocco temporaneo dei fondi destinati al bilancio federale, la costruzione del muro al confine con il Messico e la stretta sulle politiche migratorie rimangono nodi irrisolti che lo stesso Trump potrebbe anche decidere di affrontare con un colpo di mano anti-democratico al termine della tregua appena sottoscritta a Washington.

 

 

Mentre i giornali “liberal” americani celebravano la vittoria della leader democratica alla Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, in grado di costringere il presidente a cedere sullo “shutdown” senza ottenere il denaro per il muro anti-migranti, uno degli uomini di Trump chiariva come le recenti decisioni della Casa Bianca non implichino in nessun modo un ammorbidimento nelle trattative sul bilancio che stanno per iniziare tra i rappresentanti dei due partiti.

 

Il capo di gabinetto ad interim della Casa Bianca, Mick Mulvaney, ha assicurato in un’intervista a Fox News che “l’impegno del presidente è di difendere il paese” e che “intende farlo con o senza il Congresso”. In altre parole, se Trump non otterrà i quasi sei miliardi di dollari richiesti per il muro di confine attraverso l’iter costituzionale previsto, resta aperta la possibilità di una dichiarazione di emergenza che consenta di reperire fondi già stanziati e dirottarli a questo scopo, assegnandone la costruzione all’esercito o ad altre agenzie governative qualificate.

 

La minaccia di violare la Costituzione con la scusa di una crisi nazionale totalmente inventata non è nuova da parte di Trump, ma sembrava per alcuni essere passata in secondo piano dopo l’accordo del fine settimana scorso sulla riapertura degli uffici federali fino al 15 febbraio prossimo. Come ha spiegato una fonte interna alla Casa Bianca citata lunedì dal Washington Post, “la decisione [del presidente] di riaprire il governo non è tanto un passo indietro ma serve a sgombrare il campo per il ricorso a un decreto presidenziale” che ordini la costruzione del muro.

 

Trump ha in definitiva ceduto momentaneamente alle pressioni anche nel suo partito alla luce dei crescenti disagi causati ai dipendenti federali, da più di un mese senza stipendio, e alle fasce di popolazione che beneficiano di programmi di assistenza pubblici, a rischio di esaurimento fondi. Questa decisione ha però sollevato accese polemiche negli ambienti ultra-conservatori, scagliatisi sulla Casa Bianca per avere ceduto terreno ai democratici, mentre ha allo stesso tempo permesso a buona parte della stampa di insistere sulla debolezza del presidente, già visto dalla maggioranza degli americani come il principale responsabile dello “shutdown”.

 

In questo scenario, Trump starebbe perciò pensando a un’iniziativa unilaterale per rilanciare la costruzione del muro, soprattutto se gli imminenti negoziati al Congresso per trovare un accordo definitivo sul bilancio dovessero dare segni precoci di ingolfamento. Il primo passo sarebbe un nuovo “shutdown”, identificato come una possibile “opzione” dallo stesso presidente in un’intervista rilasciata domenica al Wall Street Journal, e successivamente un eventuale decreto di emergenza.

 

Che Trump sia orientato a muoversi in questo senso è confermato anche dal persistere dei toni populisti nei suoi “tweet” del fine settimana. Il presidente americano ha ribadito come al confine meridionale esista una vera e propria crisi umanitaria e di sicurezza, per spiegare la quale continua a dipingere gli immigrati, in fuga da paesi violenti e impoveriti del centro America, come assassini, stupratori e trafficanti. Trump ha inoltre snocciolato dati fantasiosi sulla presunta emergenza migratoria, gonfiando ad esempio fino a 25 milioni il numero di residenti “illegali” negli USA dai circa 11 milioni solitamente stimati.

 

La creazione di un clima apocalittico, con un paese sull’orlo di un’invasione di immigrati, serve dunque a preparare il terreno a una dichiarazione di emergenza che, secondo il punto di vista della Casa Bianca, potrebbe essere politicamente più accettabile se le discussioni sul bilancio dovessero fallire.

 

Una mossa di questo genere creerebbe un precedente pericolosissimo e mai sperimentato da nessun’altra amministrazione. Il presidente si assumerebbe cioè la facoltà di cambiare la destinazione dei fondi stanziati dal Congresso, utilizzandoli per adempiere alla propria agenda politica sulla base di una dichiarazione di emergenza scaturita non da una reale situazione di crisi – come una catastrofe naturale o una minaccia di carattere militare – ma da uno stallo politico causato da posizione divergenti tra democratici e repubblicani.

 

In gioco c’è in sostanza un nuovo accentramento di poteri nelle mani dell’esecutivo, già rafforzato in maniera enorme negli ultimi due decenni, tanto da risultare per certi versi quasi fuori controllo. Anzi, proprio questo obiettivo potrebbe essere in cima all’agenda di una Casa Bianca che, nonostante l’apparente cedimento sullo “shutdown”, è subito tornata a chiedere un accordo che preveda né più ne meno i 5,7 miliardi di dollari per il muro già invocati nelle scorse settimane e puntualmente respinti dal Partito Democratico.

 

Oltretutto, per sottolineare la linea dura e, forse, indurre il naufragio dei negoziati, Trump ha messo in serio dubbio la possibilità di acconsentire alla regolarizzazione di circa 700 mila immigrati “irregolari” arrivati negli USA da bambini in cambio dei fondi per il muro. Questa concessione ai democratici da parte del presidente era stata invece ipotizzata prima della riapertura degli uffici governativi.

 

Sull’opportunità di dichiarare l’emergenza nazionale nei termini descritti sembra esserci comunque scetticismo e più di una perplessità anche nello schieramento repubblicano, se non altro per il rischio di innescare lunghe cause legali. La sensazione diffusa è poi quella che si vada verso un punto di non ritorno, con l’erosione di un altro principio costituzionale dalle conseguenze imprevedibili. Ancora una volta, tuttavia, è probabile che la decisione di Trump finisca per tenere conto più delle opinioni estreme all’interno del suo partito piuttosto che quelle relativamente moderate.

 

A breve, in ogni caso, inizieranno i lavori di una speciale commissione composta da deputati e senatori dei due partiti con il compito di trovare un’intesa definitiva per finanziare il bilancio federale fino alla fine dell’anno fiscale in corso. I prossimi sviluppi saranno determinati anche dalle posizioni del Partito Democratico, visto il potere di cui esso dispone grazie alla maggioranza alla Camera e il peso decisivo al Senato per impedire l’approvazione di misure non gradite.

 

L’impressione a questo proposito è in larga misura la stessa delle ultime settimane e cioè che i leader democratici siano pronti a stanziare somme importanti per la “sicurezza” delle frontiere, se non addirittura fondi per una barriera fisica, come richiesto da Trump, a patto che l’opera da realizzare non venga chiamata ufficialmente “muro”.

 

Sulla scia di dichiarazioni precedenti di esponenti democratici al Congresso, anche in questi giorni deputati e senatori di questo partito hanno infatti confermato l’accordo con Trump sulla necessità di “rendere più sicuri i confini” e ricordato come il loro partito negli anni scorsi abbia più volte appoggiato iniziative di legge per contrastare l’ingresso dei migranti, spesso con stanziamenti di gran lunga più ingenti rispetto a quanto richiesto ora dalla Casa Bianca per il muro del presidente.