Nel suo discorso sullo stato dell’Unione di quest’anno, martedì il presidente americano Trump ha deciso eccezionalmente di dedicare un passaggio alla minaccia che il socialismo rappresenterebbe per gli Stati Uniti. L’invettiva dell’inquilino della Casa Bianca è apparsa a molti per lo più come una mossa elettorale per cercare di infiammare la base del Partito Repubblicano a meno di un anno dall’inizio delle primarie. A ben vedere, tuttavia, la condanna del socialismo davanti al paese ha fatto intravedere la sensazione di panico che sembra avvolgere sempre di più una classe dirigente screditata di fronte al moltiplicarsi delle tensioni sociali e delle manifestazioni di opposizione contro un sistema in profonda crisi.

 

 

Probabilmente per la prima in assoluto nella storia degli USA, un presidente ha ammesso e denunciato il crescente favore con cui la popolazione americana vede il socialismo, sia pure in una forma non univoca e in larga misura confusa. A un certo punto del suo intervento al Congresso, Trump ha rivelato di essere “allarmato dai nuovi appelli all’adozione del socialismo nel nostro paese”.

 

Questa affermazione è seguita a un riferimento alla situazione del Venezuela, dove Trump, impegnato nel tentativo di installare un fantoccio di estrema destra al posto del legittimo presidente Maduro, ha attribuito lo stato di “povertà e disperazione” di un popolo alle “politiche socialiste” perseguite a Caracas negli ultimi due decenni. Fermo restando che la crisi economica e sociale venezuelana dipende molto più dalle misure punitive decise a Washington che non dal socialismo di Chavez e Maduro, il presidente americano ha collegato gli scenari del paese sudamericano al fronte domestico, promettendo, tra gli applausi bipartisan, un fermo impegno affinché “l’America non diventi mai un paese socialista”.

 

A giudicare dalla reazione dei media ufficiali, l’uscita di Trump sarebbe stata fuori luogo o esagerata. La stessa stampa “mainstream” ha giudicato talvolta gli scrupoli anti-socialisti di Trump come una strategia di attacco contro il Partito Democratico in vista della campagna elettorale del 2020. Tra i democratici sono infatti in crescita le quotazioni dell’ala progressista e alcuni degli astri nascenti del partito – come la neodeputata 29enne Alexandria Ocasio Cortez – e i probabili o sicuri candidati alla Casa Bianca – come Bernie Sanders o Elizabeth Warren – promuovono un’agenda almeno in parte di sinistra, mentre alcuni si autodefiniscono addirittura “democratici socialisti”.

 

Visto che queste tendenze all’interno del Partito Democratico e le relative proposte programmatiche risultano sempre più popolari, anche se di natura più progressista se non moderata più che realmente socialista, il ricorso a una retorica di questo genere serve a demonizzare gli avversari politici e a modellare un messaggio elettorale comune basato sulla strenua difesa dell’ultra-liberismo e dell’iniziativa privata. La difesa contro il pericolo del socialismo si traduce peraltro nella difesa di una società dove il profitto è messo davanti a ogni necessità umana e nella quale una manciata di miliardari detiene gran parte delle ricchezze, mentre il diritto alla salute o all’educazione sono quasi del tutto controllati dagli interessi privati.

 

Oltre ai calcoli politici ed elettorali, dietro alla tirata anti-socialista di Trump c’è però anche la presa d’atto di un clima esplosivo che ha di fatto mostrato nuovamente a milioni di persone come sia possibile e, anzi, auspicabile, un sistema alternativo al capitalismo. Se le proposte dell’ala sinistra del Partito Democratico sono al limite assimilabili al modello socialdemocratico scandinavo – aliquota del 70% sui redditi più elevati, assistenza sanitaria pubblica universale – anche la sola discussione attorno a misure simili e, effettivamente “radicali” in relazione alla realtà americana, minaccia di aprire una breccia nel muro del pensiero unico liberista, alimentando tra giovani e lavoratori americani aspettative e speranze di cambiamenti ben più incisivi.

 

In definitiva, i timori di Trump non riguardano tanto i politici democratici, la cui fedeltà al capitalismo non è nemmeno lontanamente in discussione, quanto la prospettiva di una radicalizzazione delle tensioni sociali negli Stati Uniti fino a sfociare in un’aperta rivolta contro un sistema con livelli di disuguaglianza grotteschi e dalle tendenze sempre più autoritarie. Gli ultimi mesi hanno visto anche oltreoceano un aumento vertiginoso di iniziative di protesta e forme di resistenza, da scioperi in svariati settori a dimostrazioni inizialmente limitate a questioni ben precise, come contro il razzismo o la violenza della polizia, e poi sfociate in proteste di carattere politico più ampio.

 

L’attacco contro il socialismo nel discorso di martedì sullo stato dell’Unione è dunque una sorta di riconoscimento e legittimazione da parte di un presidente e una classe politica che, ironicamente, contribuiscono a introdurre nel dibattito politico ufficiale l’esistenza e la concreta implementazione di un sistema alternativo e più equo.

 

Che lo sbotto retorico di Trump non sia un elemento estemporaneo è dimostrato dall’attenzione dedicata già in altre occasioni dallo stesso presidente e dalla sua amministrazione alla battaglia contro la minaccia socialista. Un esempio eclatante di ciò era stato qualche mese fa un rapporto realizzato dai consiglieri economici della Casa Bianca e dedicato proprio al discredito dei principi socialisti o presunti tali in ambito economico.

 

L’urgenza con cui le classi dirigenti, negli Stati Uniti e non solo, sentono di dovere combattere il ritorno dell’interesse per il socialismo, anche se ancora in una fase iniziale, è spiegata ad esempio da una serie di indagini e rilevazioni di opinione che circolano da qualche tempo. In USA, la scorsa estate una ricerca della Gallup aveva mostrato come il 51% degli americani tra i 18 e i 29 anni avesse una visione positiva del socialismo contro il 45% del capitalismo, con un declino del 12% in appena due anni per quest’ultimo sistema. Tra gli elettori del Partito Democratico, la percentuale di ben disposti verso un sistema socialista non meglio definito saliva addirittura al 57%. D’altra parte, nelle primarie democratiche per la Casa Bianca del 2016, il senatore Bernie Sanders era riuscito a raccogliere più di 13 milioni di voti proprio grazie all’adozione di una piattaforma politica auto-definita socialista.

 

Questo fenomeno non è limitato ovviamente agli Stati Uniti, come dimostra la mobilitazione dei “gilet gialli” in Francia, e appare tanto più clamoroso se si pensa al clima politico, mediatico e, spesso, accademico ostile ai principi del socialismo anche in forma moderata. Se le opinioni e l’attitudine verso il socialismo sono in molti casi confuse, è comunque evidente come il sentimento anti-sistema sia diffusissimo e, in qualche modo, esso abbia a che fare con il desiderio di cercare un modello di sviluppo economico e sociale alternativo a quello capitalistico.

 

In questo senso andava letta una notevolissima ricerca eseguita su un ampio campione già nella primavera del 2017 dall’organizzazione che riunisce le reti televisive pubbliche europee. I risultati erano stati per molti versi sbalorditivi e mostravano, tra l’altro, che il 53% degli intervistati tra i 18 e i 35 anni era pronto a partecipare a una “rivolta su larga scala” contro la “generazione al potere”, se fosse esplosa nei giorni o mesi successivi. In paesi come Francia e Grecia, questa percentuale arrivava a toccare il 60%.

 

La disponibilità della maggioranza dei giovani europei a prendere parte a una sollevazione di massa aveva connotati politici e sociali, come chiarivano le risposte ad altri quesiti dell’indagine. Ad esempio, una maggioranza dell’89% era ad’accordo sull’affermazione che “il divario tra i ricchi e i poveri sta aumentando”, il 90% sosteneva che “le banche e il denaro controllano il pianeta” e il 92% riteneva che “i politici sono corrotti”.

 

In uno scenario simile, quindi, l’avvertimento e l’impegno contro il socialismo del presidente americano Trump non suonano soltanto come una presa d’atto indiretta del ritorno del conflitto sociale come motore del cambiamento ma, in maniera più preoccupante, prospettano anche un irrigidimento delle classi dirigenti, già impegnate a imprimere una svolta autoritaria ai sistemi democratici occidentali per salvare il sistema attuale e i privilegi di una ristretta cerchia di super-ricchi.

Lo stesso Trump, infatti, continua a minacciare l’introduzione di uno stato di emergenza nel paese, ufficialmente per potere costruire un muro di confine per fermare i migranti provenienti dal Messico e dall’America Latina ma in realtà anche per fissare un precedente che garantisca un’autorità semi-assoluta al potere esecutivo per affrontare potenzialmente qualsiasi emergenza politica e sociale.

 

Altrove, infine, la musica non appare molto differente. Il Parlamento francese ha ad esempio approvato proprio questa settimana una legge repressiva e anti-democratica che restringe pesantemente il diritto di protesta, rafforzando i poteri di polizia in risposta all’ondata dei “gilet gialli” che minaccia di travolgere il governo del presidente Macron.

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