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Questa settimana il presidente americano Trump ha esercitato per la seconda volta dall’inizio del suo mandato il potere di veto, affermando il pieno sostegno del governo di Washington alla guerra criminale condotta da quattro anni dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti contro lo Yemen e la sua popolazione. Il veto della Casa Bianca ha bloccato una risoluzione di condanna dello stesso conflitto approvata nelle scorse settimane dal Congresso e che avrebbe costretto il presidente a interrompere la partecipazione degli Stati Uniti all’aggressione in corso nel più povero dei paesi arabi.

 

 

Il provvedimento era stato proposto dal senatore “indipendente”, nonché candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico, Bernie Sanders, ed era andato in porto dopo un lungo e complesso percorso legislativo. Il Congresso aveva agito invocando il cosiddetto”War Powers Act” del 1973 per reclamare il proprio diritto ad autorizzare la partecipazione americana a un conflitto armato sul territorio di un paese straniero.

 

Questa legge era stata approvata per cercare di limitare gli abusi del potere esecutivo in materia di guerra dopo le esperienze di Corea e Vietnam. In quasi cinquant’anni, tuttavia, non era mai stata utilizzata dal Congresso USA. Il “War Powers Act” obbliga il presidente a informare il Congresso circa l’impegno delle forze armate all’estero entro 48 ore dall’inizio delle ostilità. Se entro 60 giorni il Congresso non autorizza la decisione, il presidente ha 30 giorni di tempo per ritirare le truppe e interrompere l’impegno americano nel conflitto.

 

Con i democratici di Camera e Senato hanno votato a favore rispettivamente anche 16 e 7 membri della delegazione repubblicana. Il sostegno relativamente bipartisan del provvedimento contro la guerra in Yemen, anche se non sarà sufficiente a neutralizzare il veto di Trump, è dovuto sostanzialmente a due fattori. Il primo è la crescente impopolarità di un conflitto che propone quasi quotidianamente stragi indiscriminate di civili ad opera della “coalizione” guidata dall’Arabia Saudita.

 

Il secondo è invece il sentimento di irritazione diffuso a Washington nei confronti del regime di Riyadh per il barbaro assassinio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi all’interno dell’ambasciata del regno a Istanbul lo scorso mese di ottobre. La morte di Khashoggi, che viveva da tempo negli USA e collaborava con il Washington Post, aveva infiammato l’opposizione all’interno di una parte dell’establishment di potere americano nei confronti del principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman (MBS), non tanto per i suoi metodi brutali, quanto per l’impronta più indipendente da lui impressa alla politica estera e alle scelte strategiche del suo paese, evidente tra l’altro dal rafforzamento dei legami con Russia e Cina.

 

A spingere per il veto sono stati in particolare i membri “neo-con” più influenti dell’amministrazione Trump, cioè il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton. La decisione è stata accompagnata da una dichiarazione del presidente, il quale ha descritto la risoluzione del Congresso come “inutile” e “un pericoloso tentativo di indebolire la mia autorità costituzionale, mettendo a rischio le vite di cittadini e soldati americani”.

 

La Costituzione americana assegna al presidente il comando delle forze armate, ma il Congresso ha il potere di dichiarare guerra e di autorizzare il finanziamento delle operazioni belliche. Il conflitto in Yemen mortifica perciò il ruolo del potere legislativo americano, in maniera perfettamente coerente con la deriva autoritaria degli ultimi decenni, segnati da guerre e aggressioni militari più o meno limitate, decise quasi sempre da un esecutivo di fatto fuori controllo e senza vincoli.

 

Quando poi il Congresso è intervenuto per esercitare la propria autorità costituzionale, come nelle vicende seguite all’11 settembre 2001, l’autorizzazione all’uso della forza, approvata ufficialmente per colpire al-Qaeda, è stata sfruttata e abusata dalle amministrazioni che si sono susseguite fino a giustificare interventi contro paesi e organizzazioni che nulla avevano a che fare con quella fondata da Osama bin Laden.

 

Con il secondo veto del suo primo mandato, Trump ha ad ogni modo ribadito l’importanza strategica per gli Stati Uniti di un conflitto scatenato nel 2015 per piegare la resistenza dei “ribelli” Houthi sciiti e reinstallare alla guida dello Yemen il presidente-fantoccio dei sauditi e degli americani, Abd-Rabbu Mansour Hadi. La guerra contro la fierissima resistenza degli Houthi è vista come uno snodo vitale nell’offensiva contro l’Iran per la supremazia nella regione mediorientale. Secondo la versione di Riyadh e Washington, la Repubblica Islamica garantirebbe sostegno finanziario e militare ai guerriglieri sciiti in Yemen, anche se in realtà esistono tutt’al più indizi di legami modesti tra le due parti.

 

Fin dall’inizio del conflitto, le forze del Comando Centrale americano hanno garantito alla “coalizione” saudita non solo un flusso continuo di armamenti da utilizzare in combattimento e, spesso, per sterminare civili, ma anche il cruciale rifornimento in volo degli aerei impegnati nei bombardamenti e informazioni di intelligence sugli obiettivi da colpire in territorio yemenita.

 

Un eventuale schiaffo del Congresso ai sauditi avrebbe inoltre potuto mettere a rischio la collaborazione tra la Casa Bianca e il regno wahhabita su vari fronti, dalla nascente alleanza di fatto tra Arabia e Israele all’imminente lancio del “piano di pace” americano per il conflitto palestinese, per non parlare della questione ultra-cruciale per Washington dei “petro-dollari”.

 

Il fatto che non ci siano ufficialmente militari americani sul campo in Yemen ha spinto l’amministrazione Trump a sostenere che l’impegno degli USA nella guerra non sia determinante e non richieda alcuna autorizzazione del Congresso. Anzi, la presenza americana al fianco di Arabia Saudita ed Emirati contribuirebbe a rendere meno pesante il bilancio delle vittime civili e la distruzione del paese aggredito.

 

La realtà è però ben diversa e parecchi studi e indagini hanno dimostrato il ruolo decisivo degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali. Proprio nei giorni scorsi, la testata on-line The Intercept aveva pubblicato una serie di documenti riservati dei servizi segreti militari francesi che confermavano la sostanziale incompetenza militare dei sauditi e la pressoché totale dipendenza del regno dalle armi occidentali – americane ed europee – nella conduzione della guerra contro lo Yemen.

 

Secondo alcune stime, le operazioni belliche in questo paese avrebbero provocato direttamente la morte di poco meno di 100 mila civili. Altrettanti e forse molti di più sono invece i decessi dovuti alle conseguenze della guerra, a cominciare dalla mancanza di accesso a cibo e acqua e alla diffusione di epidemie come il colera. Svariati milioni sono inoltre a rischio perenne di carestia, così come i rifugiati interni o costretti a fuggire all’estero.

 

Le stragi di civili si susseguono senza sosta e nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Solo nelle ultime settimane, i bombardamenti sauditi e degli Emirati hanno colpito prima un ospedale in una zona rurale del paese uccidendo otto persone, tra cui cinque bambini, e successivamente una scuola nella capitale, Sana’a, provocando 13 vittime e un centinaio di feriti.

 

Oltre ad appoggiare attivamente crimini di questo genere, gli Stati Uniti sono infine impegnati direttamente in Yemen con un programma di bombardamenti “mirati” con velivoli senza pilota (droni), inaugurato dall’amministrazione Bush jr., ampliato da Obama e proseguito da Trump. Esso è ufficialmente diretto contro i membri della filiale di al-Qaeda nella penisola arabica (AQAP), ma finora ha causato anch’esso la morte di centinaia di civili, inclusi almeno tre con cittadinanza americana.