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Col pericolo concreto di un’imminente provocazione americana preparata a tavolino per scatenare un’aggressione militare contro l’Iran, nei giorni scorsi è apparsa un’opportuna rivelazione che conferma come nel 2018 l’amministrazione Trump utilizzò una chiarissima “false flag” come giustificazione per bombardare il regime siriano. L’episodio si riferisce a quello che sulla stampa ufficiale di mezzo mondo era diventato noto come l’attacco chimico di Douma, un sobborgo di Damasco, avvenuto in data 7 aprile 2018.

 

 

In quel periodo era in corso l’offensiva delle forze di Assad contro i militanti islamisti sostenuti dagli USA. Nel pieno dello scontro, cominciò a circolare per l’ennesima volta la notizia che l’esercito governativo aveva condotto un attacco utilizzando armi chimiche, nello specifico gas cloro. L’opposizione armata e gruppi come i famigerati “Elmetti Bianchi” avevano subito lanciato una frenetica campagna di propaganda, fornendo ai media allineati drammatiche immagini e filmati di morti e feriti, in buona parte donne e bambini.

 

Tra le immagini circolate ce n’erano anche alcune che documentavano la presenza di contenitori di gas tossico, secondo l’opposizione anti-Assad sganciati contro un edificio civile da elicotteri del regime. Da subito, le informazioni che era stato possibile reperire suggerivano serie anomalie. Al netto della propaganda ufficiale, era apparso soprattutto improbabile che i due recipienti da cui avrebbe dovuto sprigionarsi il gas avessero sfondato il tetto dell’abitazione, in cemento armato, senza subire alcun danno significativo. Uno dei due ordigni era presumibilmente rimbalzato dal pavimento fermandosi su un letto, mentre l’altro, sempre dopo avere penetrato il tetto, aveva finito la sua caduta su un balcone. Ancora, uno dei contenitori aveva rilasciato il cloro dopo l’impatto. L’altro, invece, aveva conservato intatta la propria valvola di sicurezza.

 

Oltre a queste perplessità, anche a un’analisi politico-strategica dei fatti la versione proposta in primo luogo dagli Stati Uniti reggeva ben poco. Assad era nelle fasi finali dell’offensiva per riprendere il controllo del sobborgo della capitale e, visti anche gli avvertimenti dei governi occidentali che non sarebbero stati tollerati attacchi con armi proibite, non aveva evidentemente alcun interesse a ricorrere a ordigni di questo genere, tanto più contro i civili. Anche prendendo per certa la responsabilità del regime, inoltre, se quest’ultimo intendeva chiudere i conti della battaglia di Douma con armi chimiche, non avrebbe avuto alcun senso utilizzare soltanto un paio di contenitori di cloro e, ancora, contro un edificio civile di nessun interesse militare.

 

Sull’episodio di Douma avrebbe in seguito indagato l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW), inviando sul posto un team di specialisti per condurre analisi scientifiche sui reperti e di carattere ingegneristico in merito ai danni causati dalle presunte armi contenenti gas tossico. Dal rapporto finale, tuttavia, vennero escluse le conclusioni più importanti, essenziali per ricostruire l’accaduto ed esprimere un giudizio sulle eventuali responsabilità di Damasco. Quel che venne reso pubblico fu invece un rapporto inoffensivo che lasciava aperta qualsiasi ipotesi, anche se l’OPCW faceva notare come gli squarci dell’edificio in questione, teoricamente provocati dai contenitori di cloro, erano identici a quelli di altri palazzi nelle vicinanze, colpiti dall’artiglieria convenzionale.

 

Recentemente, una copia del rapporto completo dell’OPCW a Douma è stata reperita dal “Working Group on Syria, Propaganda and Media”, un’organizzazione indipendente di accademici e ricercatori che si occupa di filtrare e approfondire le informazioni e le notizie diffuse sul conflitto nel paese mediorientale. L’analisi ingegneristica del team dell’OPCW conteneva effettivamente le conclusioni che avrebbero dato una qualche utilità al rapporto che nel 2018 era stato presentato al pubblico ed essa conferma appunto tutte le riserve che media e osservatori indipendenti avevano rilevato all’indomani del 7 aprile 2018.

 

I punti cruciali dell’indagine sul campo sono soprattutto due. Il primo riguarda “dimensioni, caratteristiche e aspetto dei contenitori [di cloro]”, nonché “la scena dell’incidente”, tutti “incompatibili con quanto ci si sarebbe atteso se i due ordigni fossero stati lanciati da un velivolo”. L’altro, ancora più determinante, spiega come “l’indagine in loco e le successive analisi indichino un’elevata probabilità che entrambi i contenitori [di gas cloro] siano stati posizionati manualmente sul posto”.

 

In sostanza, gli squarci nelle abitazioni furono causati da colpi di artiglieria convenzionale, i 34 morti contati sulla scena dei fatti provocati da un evento indefinito e i contenitori di cloro trasportati a mano da individui o gruppi con tutto l’interesse ad attribuire la colpa di un fantomatico attacco con armi chimiche al regime di Assad.

 

Questa spiegazione è anche perfettamente plausibile con il quadro generale delle operazioni belliche all’inizio di aprile dello scorso anno. Il presidente americano Trump aveva da poco annunciato l’intenzione di ritirare tutte le truppe USA dispiegate illegalmente in Siria. I contrari a questa decisione all’interno del governo di Washington e le formazioni armate impegnate contro Damasco erano perciò alla ricerca di una giustificazione per far cambiare idea all’inquilino della Casa Bianca, come sarebbe puntualmente avvenuto più tardi.

 

Se a ciò si aggiunge il fatto che nei dintorni della capitale siriana il nodo si stava stringendo inesorabilmente attorno ai “ribelli”, è del tutto ipotizzabile che questi ultimi abbiano creato una messa in scena per fare pressioni su Trump e Assad. Infatti, e questo è l’aspetto più grave della vicenda, poco dopo i fatti di Douma, senza attendere nemmeno un’indagine indipendente, gli Stati Uniti, di comune accordo con Francia e Gran Bretagna, decisero un attacco militare contro la Siria, lanciando un centinaio di missili, quasi tutti esplosi senza fare danni e ufficialmente diretti contro presunte installazioni dedicate alla produzione di armi chimiche.

 

Il caso di Douma, molto simile ad altri avvenuti negli anni precedenti del conflitto, presenta dunque alla comunità internazione, finora del tutto disinteressata alle ultime rivelazioni, un chiaro crimine di guerra - il lancio di missili americani, francesi e britannici contro la Siria - dimostrato dalle conclusioni di un’autorevole agenzia sovranazionale, assieme a un altrettanto evidente esempio di manipolazione di un’indagine indipendente. Per il “Working Group on Syria”, infatti, “non ci sono dubbi” che l’OPCW sia stata influenzata ai propri vertici dai governi di Washington, Parigi e Londra per occultare le conclusioni dell’analisi sul campo che avrebbero contraddetto la loro versione dei fatti.

 

Quello che è accaduto a Douma non è ovviamente un esempio isolato, né per la Siria né per altri scenari di guerra. La storia più o meno recente dell’imperialismo americano è piena di provocazioni e “false flag” di questo genere, basti pensare all’incidente del Golfo del Tonchino nel 1964, che servì a scatenare la guerra contro il Vietnam del Nord, o alle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein alla vigilia dell’invasione dell’Iraq nel 2003.

 

La ricostruzione dei fatti di tredici mesi fa è però utile e opportuna a ricordare ancora una volta il funzionamento e la gestione delle crisi internazionali, manipolate dagli Stati Uniti e dai loro alleati per arrivare alle conclusioni desiderate. A conferma che la storia continua a ripetersi anche per eventi di questo genere, con le tensioni alle stelle tra Washington e Teheran si sono registrati nei giorni scorsi alcuni eventi altamente sospetti, come il sabotaggio di alcune petroliere saudite e degli Emirati Arabi nelle acque del Golfo Persico, quasi certamente diretti a preparare il campo a una possibile aggressione militare contro la Repubblica Islamica.