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Anche se mancano ancora sette mesi all’inizio delle primarie per la presidenza degli Stati Uniti, la campagna elettorale sta già entrando nel vivo con l’attenzione dei media concentrata sull’affollatissima competizione per la nomination del Partito Democratico. In quello che si prospetta come un lungo processo di selezione, a stabilire le sorti dei candidati saranno in grandissima parte i poteri forti dentro e fuori l’apparato di governo, mentre già si preannuncia l’abbattimento di tutti i record relativi ai finanziamenti elettorali raccolti dagli aspiranti alla Casa Bianca.

 

Alla vigilia della scadenza imposta dalla Commissione Elettorale Federale, nei giorni scorsi sono stati presentati i dati ufficiali della situazione finanziaria dei candidati alla presidenza. Tra i democratici ha fatto notizia più di altri la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, in grado quasi di triplicare il denaro incassato per la propria campagna tra il primo e il secondo trimestre del 2019.

 

Warren ha superato quota 19 milioni tra aprile e giugno, secondo molti osservatori grazie all’adozione di una strategia che punta a intercettare il consenso dei potenziali elettori di sinistra del Partito Democratico. Oltre ad avere una squadra di collaboratori pagati di gran lunga più numerosa dei suoi rivali interni, la 70enne senatrice ha scelto di rifiutare le donazioni dei grandi finanziatori democratici e di evitare le tradizionali raccolte fondi di ricchi sostenitori che, quasi sempre a porte chiuse, garantiscono ai candidati che vi partecipano decine o centinaia di migliaia di dollari in poche ore.

 

Negli ultimi tre mesi, Warren ha così ricevuto 384 mila singole donazioni dell’importo medio di meno di 30 dollari ciascuna. Questo risultato la mette davanti all’altro candidato di “sinistra” del Partito Democratico, il senatore del Vermont Bernie Sanders. Per lui i numeri hanno disegnato una situazione stabile, con circa 18 milioni raccolti sia nel primo che nel secondo trimestre dell’anno.

 

L’entità della donazione media è stata per Sanders ancora più ridotta rispetto a quella registrata da Elizabeth Warren, ma l’ascesa della collega senatrice indica un possibile calo dell’interesse nei suoi confronti come potenziale agente di cambiamento in senso progressista. Senza dubbio, l’entusiasmo a tratti clamoroso che aveva caratterizzato le primarie del 2016 di Sanders si è raffreddato almeno in parte a causa della docilità con cui aveva accettato la vera e propria truffa organizzata dai vertici democratici per favorire la nomination di Hillary Clinton, nonché dalla sua decisione di appoggiare incondizionatamente l’ex segretario di Stato di Obama nella sfida a Donald Trump.

 

Le cifre importanti raccolte quasi interamente on-line da Warren e Sanders confermano comunque l’esistenza di un ampio bacino elettorale interessato a politiche progressiste, se non addirittura socialiste anche negli Stati Uniti. Sull’altro fronte, buona parte dei candidati alla nomination democratica predilige invece un appello più moderato, in grado di intercettare anche elettori repubblicani centristi e indipendenti. Di conseguenza, questi candidati ricavano una fetta determinante dei propri finanziamenti dal circuito dei donatori milionari e miliardari vicini al Partito Democratico.

 

I due pretendenti con le performance migliori nel secondo trimestre dell’anno rientrano infatti in quest’ultima categoria e sono l’ex vice-presidente, Joe Biden, con 21,5 milioni, e, sorprendentemente, il semi-sconosciuto sindaco della cittadina di South Bend, nello stato dell’Indiana, Pete Buttigieg, con quasi 25 milioni di dollari. Se Biden è considerato una scelta sicura dall’establishment in ansia per l’imprevedibilità di Trump, il caso di Buttigieg è un esempio eclatante della creazione a tavolino di un fenomeno politico lanciato da determinati ambienti mediatici e di potere nonostante un vuoto quasi totale di idee ed esperienze.

 

Giovane, di aspetto piacente, dichiaramente gay e con un passato nelle forze armate americane, Buttigieg rappresenta per molti versi il candidato più adatto a dissimulare politiche di destra dietro una finta immagine “liberal”. Il suo indice di gradimento è però in evidente calo nelle ultime settimane, a causa di una figura non esattamente brillante nel primo dibattito democratico, andato in scena un paio di settimane fa a Miami, e di un’accesa polemica scoppiata dopo l’assassinio di un cittadino di colore nella sua città per mano di un agente di polizia.

 

Parabola opposta a quella di Buttigieg sta seguendo invece la senatrice della California, Kamala Harris. Il fatto di essere donna e di colore costituisce il punto di forza principale di quest’ultima, non a caso promossa tra le principali favorite per la nomination da media e commentatori “liberal” fissati con le questioni di razza e di genere. Harris ha un passato da procuratore generale con fama da “law-and-order” e nelle sue prime uscite pubbliche ha tenuto un approccio decisamente cauto a questioni come la copertura sanitaria pubblica universale o l’accesso gratuito all’istruzione universitaria.

 

Più ancora di Kamala Harris, a questo punto della competizione sembra essere ad ogni modo Elizabeth Warren a risultare la candidata preferita dai media che gravitano attorno al Partito Democratico. Secondo la logica di questi ambienti, in quanto donna dovrebbe essere automaticamente portatrice di ideali progressisti. Soprattutto, però, in un frangente segnato da crescenti tensioni sociali e disuguaglianze di reddito esplosive, la qualità principale della senatrice del Massachusetts è quella di essersi costruita un’immagine di fustigatrice degli eccessi di Wall Street e di paladina della classe media americana.

 

Questa fama, la Warren se l’è costruita in larga misura grazie alla decisione di Obama di sceglierla per creare un’agenzia federale che, dopo la crisi finanziaria del 2008, avrebbe dovuto proteggere gli americani dalle manipolazioni e dagli abusi dell’industria finanziaria. Nella migliore delle ipotesi, la candidata alla Casa Bianca per i democratici, feroce sostenitrice del Partito Repubblicano e del libero mercato fino alla metà degli anni Novanta, è portatrice di proposte di legge che cambierebbero di poco o nulla la struttura del capitalismo americano.

 

Questa attitudine non sarà comunque di ostacolo alla sua possibile ulteriore ascesa nei prossimi mesi. Anzi, il mix di retorica radicale e di proposte relativamente moderate è utile a neutralizzare le spinte popolari per un reale cambiamento in senso progressista del sistema politico e sociale americano, così da incanalarle come sempre nel vicolo cieco del Partito Democratico. Inoltre, per quanto si sia per il momento avventurata in modo limitato nelle questioni di politica estera, Elizabeth Warren sembra avere le idee già ben chiare sulle posizioni da tenere per legittimare la sua candidatura agli occhi del “deep state” americano. Come ha già fatto più volte lo stesso Sanders, Warren ha individuato nella rivalità con Russia e Cina le priorità dell’imperialismo USA, mentre non vi è né vi sarà traccia nei suoi discorsi pubblici di appelli al sentimento antimilitarista della potenziale base elettorale del suo partito.

 

L’inaugurazione della stagione delle primarie con i tradizionali “caucuses” dell’Iowa resta in ogni caso ancora molto lontana e, da qui al prossimo mese di febbraio, potranno esserci cambiamenti anche sostanziali degli equilibri in casa democratica. Prima ancora che gli elettori possano esprimersi, a orientare le loro scelte saranno soprattutto manovre politiche, raffiche di sondaggi, finanziamenti milionari, dibattiti ipocriti e manipolati, coerentemente con la natura di un partito che ha come punto di riferimento una parte del mondo degli affari americano e l’apparato militare e dell’intelligence preoccupato per l’irrazionalità e la sconsideratezza delle politiche dell’amministrazione Trump.

 

Quel che è certo fin da ora è che la campagna elettorale del 2020 per tutti gli uffici a livello federale e statale sarà la più dispendiosa nella storia degli Stati Uniti e, di conseguenza, di qualsiasi altro paese. Secondo alcune stime, la cifra complessiva che verrà spesa entro il novembre del prossimo anno potrebbe superare i dieci miliardi di dollari, con un aumento di quasi il 60% rispetto alla tornata elettorale del 2016.

 

Per quanto riguarda le presidenziali, al denaro già raccolto e che raccoglieranno i candidati democratici, andrà sommato quello a disposizione di Donald Trump per la sua rielezione. Nel secondo trimestre, il presidente repubblicano ha incassato ben 105 milioni di dollari e, di questo passo, potrebbe arrivare a un totale superiore ai due miliardi, superando di almeno tre o quattro volte la cifra complessiva ottenuta nel 2016. Anche se impopolare nel paese, Trump è passato da outsider a beneficiario di ingenti finanziamenti delle élites economiche e finanziarie, ben disposte a ricompensare un presidente che, a partire dalla sua elezione, ha favorito l’impennata dei profitti e il taglio alle tasse per gli americani più ricchi sulle spalle di lavoratori e classe media.