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A poco meno di due settimane dall’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani, la credibilità delle giustificazioni offerte dall’amministrazione Trump per l’operazione portata a termine in territorio iracheno sta rapidamente crollando. I tentativi di difendere la decisione da parte del presidente e dei suoi collaboratori più stretti sono infatti sommersi da contraddizioni e menzogne, al punto da mostrare l’episodio per quello che realmente rappresenta, vale a dire un crimine deliberato che minaccia di alterare in maniera drammatica la condotta degli affari internazionali.

L’ultimo tassello nella composizione del mosaico che compone la liquidazione del numero uno delle “forze Quds” dei Guardiani della Rivoluzione iraniani lo ha fornito questa settimana un resoconto degli eventi interni alla Casa Bianca di NBC News. La ricostruzione del network USA ha chiarito come il blitz contro Soleimani fosse stato pianificato da mesi. Per questa ragione, l’assassinio non è stato, come ripetuto più volte da Washington, una misura estrema e necessaria a fermare attacchi “imminenti” contro gli interessi americani, bensì una vendetta per ben altre operazioni di cui il defunto generale era considerato l’architetto.

 

Già qualche giorno prima della NBC, anche il New York Times aveva pubblicato una sorta di “dietro le quinte” dell’operazione. Il quadro che ne era uscito appariva anche in quell’occasione composto da una cerchia di persone incaricate di gestire le questioni della “sicurezza nazionale” americana, che tramavano per decidere il ricorso all’assassinio puro e semplice come strumento dell’avanzamento degli interessi strategici del loro paese.

I principali protagonisti, oltre al presidente Trump, risultano essere il segretario di Stato, Mike Pompeo, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, e il direttore della CIA, Gina Haspel. Le ragioni della morte di Soleimani sono da cercare invece nei “successi” iraniani degli ultimi anni in Medio Oriente a discapito degli interessi americani. Il New York Times cita, tra gli altri, la permanenza al potere a Damasco di Bashar al-Assad, “la presenza stabile delle forze Quds ai confini dello stato di Israele” e l’influenza in Iraq delle milizie sciite vicine alla Repubblica Islamica. In definitiva, tutto ciò che ha rafforzato la posizione dell’Iran nella regione, facendone una minaccia per la supremazia USA, anche in funzione dei rapporti sempre più stretti con Mosca e Pechino.

Tornando a quanto rivelato da NBC News, l’evento singolo che aveva spinto finalmente la Casa Bianca ad agire contro Soleimani era stato l’abbattimento da parte di Teheran lo scorso mese di luglio di un drone-spia americano entrato nello spazio aereo iraniano. L’episodio aveva portato USA e Iran sull’orlo di una guerra. Trump, secondo le ricostruzioni dei media, aveva infatti ordinato un bombardamento contro alcune postazioni missilistiche della Repubblica Islamica per poi tornare sui propri passi a dieci minuti dall’inizio dell’operazione.

Convinto dal suo entourage “neo-con”, il presidente americano aveva però sottoscritto l’assassinio di Soleimani, bersaglio delle frustrazioni dell’apparato di potere USA per i fallimenti delle proprie politiche in Medio Oriente. A Trump serviva in ogni caso una giustificazione da presentare al pubblico per l’assassinio della seconda personalità più influente dell’Iran. L’operazione avrebbe dovuto cioè apparire come la risposta all’uccisione di cittadini americani.

L’occasione sarebbe così arrivata alla fine di dicembre con il lancio di missili contro una base USA a Kirkuk, in Iraq, nel quale rimase ucciso un “contractor” americano. Il raid era stato attribuito alle milizie sciite irachene, intenzionate a vendicare un’altra azione americana che aveva fatto decine di vittime tra i loro membri, scatenando anche durissime manifestazioni di protesta contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad.

Washington non ha comunque presentato una sola prova concreta del coinvolgimento di Soleimani in queste iniziative. Anzi, dopo il suo assassinio, il presidente Trump e svariati esponenti della sua amministrazione hanno faticato a mettere assieme una tesi coerente per spiegare e giustificare l’accaduto. Inizialmente, la morte del generale iraniano sembrava essersi resa necessaria per sventare un attentato che stava per essere attuato contro basi o rappresentanze diplomatiche americane in Medio Oriente.

Letteralmente poche ore dopo questa versione, la vicenda ha iniziato a confondersi. Il segretario di Stato Pompeo aveva ammesso ad esempio che non vi erano informazioni precise sui tempi e i luoghi di possibili attacchi pilotati da Teheran. Trump aveva invece assicurato che nel mirino c’erano ben quattro ambasciate USA, ma domenica scorsa il numero uno del Pentagono, Mark Esper, ha smentito il presidente, rivelando di non essere in possesso di informazioni su minacce specifiche. Sulla stessa linea è apparso anche il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Roberto O’Brien, per il quale, d’altronde, “risulta sempre difficile” avere informazioni precise “finché l’attacco non viene portato a termine”.

Per cercare di mettere una pezza alla situazione, lunedì la Casa Bianca ha poi incaricato il ministro della Giustizia, William Barr, di rilasciare una dichiarazione che avrebbe dovuto ratificare la legalità dell’assassinio di Soleimani. Le parole di Barr non hanno tuttavia aggiunto nulla alla farsa dei giorni precedenti, ma sono state una nuova presa di posizione del responsabile della Giustizia del governo USA in favore di un esecutivo dai poteri praticamente assoluti.

A chiudere il cerchio è stato infine ancora Trump. Con un tweet, il presidente repubblicano ha ammesso la totale criminalità della condotta della sua amministrazione, spazzando via anche le ridicole giustificazioni di facciata dei giorni precedenti. Trump ha spiegato che, in fin dei conti, “non ha nessuna importanza” il fatto che Soleimani stesse preparando o meno attacchi imminenti. La sua eliminazione è stata necessaria a causa del suo “orribile passato” e, anzi, avrebbe dovuto avvenire “venti anni fa”.

Come in altre circostanze durante il suo mandato, Trump è partito col tentativo di giustificare in maniera pseudo-legale un evento contrario al diritto internazionale e ai più basilari principi democratici. Con il montare della polemica, però, il presidente ha rapidamente messo da parte qualsiasi scrupolo per abbracciare tesi e comportamenti illegali e palesemente criminali.

L’operazione contro Qasem Soleimani non è comunque soltanto il risultato delle tendenze autoritarie e francamente al limite del patologico dell’inquilino della Casa Bianca. Piuttosto, l’uso dell’assassinio mirato per rimuovere un avversario e promuovere gli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce è il culmine di un processo iniziato almeno all’indomani dell’11 settembre 2001 e del lancio dell’inganno della “guerra al terrore” da parte di George W. Bush.

Questa degenerazione, che riguarda non solo gli Stati Uniti, comporta la liquidazione delle modalità di governo democratiche e costituzionali, facendo dell’illegalità il dato dominante dell’azione di governo. Basti pensare, per citare gli esempi più eclatanti, l’invasione dell’Iraq del 2003, le torture sistematiche ai danni di sospettati di terrorismo, la rete orwelliana di sorveglianza globale, l’abuso dei poteri dell’esecutivo per scatenare guerre e, appunto, la normalizzazione della pratica degli assassini mirati, istituzionalizzata dal presidente Obama con l’uccisione in Yemen del cittadino americano Anwar al-Awlaki e del figlio sedicenne nel 2011.

Per quanto riguarda il caso Soleimani, la sua morte minaccia non solo di scatenare una guerra disastrosa tra USA e Iran. Essa rischia di diventare anche un precedente che segna una nuova svolta inquietante nella conduzione degli affari internazionali da parte del governo di Washington. A confermarlo è stato il segretario di Stato Pompeo, il quale lunedì ha spiegato che l’operazione del 3 gennaio scorso rientra in una strategia più ampia che ha una funzione di “deterrente” nei confronti di qualsiasi “sfida” alla supremazia e agli interessi USA, comprese quelle rappresentate da paesi nemici come “Russia e Cina”.

La logica evoluzione di questa tesi potrebbe perciò consistere, in un futuro non troppo lontano, in operazioni letali fuori da ogni controllo contro ipotetiche “minacce” sul territorio di potenze rivali, col rischio di innescare un conflitto nucleare, ma anche di paesi occidentali nominalmente alleati o, addirittura, entro gli stessi confini degli Stati Uniti d’America.