Le manovre statunitensi nel Mar dei Caraibi, alle quali si sono unite Francia e GB, sono politiche, più che militari. La Casa Bianca ha disperato bisogno di consenso per coprire la gestione folle della pandemia oltre che il disastro economico. La guerra alla droga è una messinscena ridicola. Non c’è nessuna guerra alla droga, che peraltro non passa dai Caraibi ma viaggia internamente, partendo dalla Colombia e facendo tappa in Ecuador, in Guatemala e Honduras per giungere poi negli States.

La rotta è ben conosciuta dagli Stati Uniti. Il tentativo di utilizzare la frontiera venezuelana subisce pesanti rovesci e, dato che business is business, la droga sceglie altre vie. Nessuno più della DEA ne è al corrente e desta semmai domande impertinenti la scoperta che il generale venezuelano che più si è distinto nello smantellamento del traffico dalla cocaina sia stato severamente sanzionato dagli Stati Uniti. O forse non è un caso.

Nel tentativo di montare uno show internazionale simile a quello montato a Panama nel 1989 o a Grenada nel 1983, le manovre nei Caraibi cercano di costruire un pretesto per muovere guerra contro Caracas, dato che il suo petrolio, il suo Coltan e il suo oro fanno gola alla combriccola nazi-evangelica che siede alla Casa Bianca, a maggior ragione in presenza di uno scontro tra Russia e Arabia Saudita su produzione e conseguente prezzo del greggio, elemento di forte impatto nella claudicante economia USA.

L’invio della flotta militare verso il Venezuela sembra l’unica strategia possibile per la Casa Bianca per cercare di rovesciare il governo legittimo di Nicolas Maduro. Non è detto che alle minacce seguano i fatti ma certo la messinscena mediatica di Guaidò ha fallito miseramente: privo di seguito, di carisma e di qualità politica, ha come unica caratteristica l’assenza di credibilità. Scoperto a mettersi in tasca 500.000 dollari di aiuti e amico di narcos colombiani, è stato defenestrato in primo luogo dalla stessa opposizione venezuelana, che ha votato un altro presidente per la Camera, togliendogli così persino quel lembo di autorevolezza da eletto, sebbene in una condizione d’illegalità. Difficile riproporlo come leader dell’opposizione se questa stessa l’ha scalzato, dura convincere i già pochi paesi (51 su 194) che l’avevano riconosciuto per obbedienza agli USA. Non è un caso che Guaidò è fuori dalla provocazione che va sotto il nome di “proposta di transizione”: se si accusa illecitamente Maduro di traffico di droga, difficile proporre Guaidò che con i narcos colombiani è più che amico.

Dopo Guaidò è fallita anche la ricetta “boliviana” dell’insurrezione interna: le forze armate sono leali al Presidente Maduro. Tutta un’altra storia dalla Bolivia, dove Evo Morales non pensò di organizzare uno scudo militare efficace contro il golpismo interno. In Venezuela, al contrario, l’unione civico-militare ha rappresentato un ostacolo insormontabile per il golpismo, oltre che un modello di governance e il chavismo è stato abituato a misurarsi nelle strade con il golpismo guarimbero, che è rimasto regolarmente schiacciato dall’organizzazione politico-militare del popolo bolivariano. Le Forze Armate sono ben addestrate ed equipaggiate e un milione di miliziani rischiano di trasformare l’appetito per il boccone venezuelano in una pericolosa indigestione.

C’è anche un fronte di terra nei piani statunitensi, che prevede l’utilizzo dell’esercito colombiano supportato dalle truppe USA di stanza in Colombia e dai paramilitari. Ma per Bogotà non è così semplice: usare la frontiera con lo Stato di Tachira per penetrare in Venezuela vede non poche controindicazioni. Sia per il prezzo pesante da pagare (l’esercito colombiano è specializzato nell’assassinare innocenti da trasformare in “falsi positivi”, non nel combattimento con pari livello), che per il rischio di riaprire il fronte interno con la ex-guerriglia, che rischierebbe di produrre una pericolosa instabilità politica. Questo, senza contare la possibile estensione ad altri paesi del scenario di guerra, il che trasformerebbe il tentativo di imporre obbedienza silente a tre paesi in un generale caos continentale che diverrebbe il peggior dei boomerang per Washington.

Muovere guerra al Venezuela sarebbe l’ultimo errore, il più grave, di una catena di insuccessi.

Per gli USA, infatti, il bilancio generale della guerra al socialismo bolivariano è pessimo: un colpo di stato contro Chavez fallito, il golpismo negli ultimi due anni ricacciato indietro dalle forze armate e dal chavismo, il terrorismo rivelatosi impotente, il narcotraffico dimostratosi incapace, la Colombia inutile allo scopo, il blocco economico, il furto degli averi venezuelani in giro per il mondo e la diplomazia inefficace. Tutte, le hanno provate tutte. Il Venezuela, come prevedibile, da obiettivo alla portata è divenuto rompicapo. Falliti dunque tutti i tentativi di finanziare, armare, addestrare, sostenere politica e diplomaticamente l’opposizione, quella di attaccare direttamente sembra essere la strada unica rimastagli.

Certo, avrebbero potuto incamminarsi sull’unica strada percorribile, quella di relazioni alla pari, di rispetto reciproco, di riconoscimento dei rispettivi sistemi. Il Venezuela non avrebbe mai rappresentato un problema di “sicurezza nazionale”, fa ridere solo il pensarlo. Avrebbe posto sul tavolo una relazione positiva e paritaria ma, comunque, almeno una non belligeranza, un rispetto che è dovuto e non può essere negato o elargito.

Ma gli Stati Uniti non sono in grado di elaborare un processo di dialogo con nessuno; sia perché l’arroganza del comando gli impedisce l’ascolto, sia perché non sono davvero in grado di concepire una linea politica che non preveda la sottomissione a loro con la forza. La cleptocrazia del proprio establishment viaggia in coppia con il furore ideologico degli latinoamericani che risiedono in Florida; sono malati terminali di un finto anticomunismo che occulta la vena predatrice. Hanno serie difficoltà ad analizzare gli scenari che ospitano mentalità diverse dalla loro; una seria incapacità nella gestione di ragionamenti complessi e l’immediato bisogno di semplificazione: tutti elementi che determinano gli errori a catena.

C’è poi una incognita forte sullo scenario caraibico ed è rappresentata dalla risposta possibile di Russia e Cina alla provocazione statunitense. La Cina, che è significativamente esposta dal punto di vista finanziario con Caracas, ha inviato già da tempo apparecchiature ed esperti di guerra elettronica. La Russia, in virtù di un nuovo accordo di cooperazione tecnico-militare, ha fornito a Caracas missili Bation e Iskander, caccia Sukoy SU-30 e il sistema di difesa antiaerea S-400, che ha già mostrato la sua efficacia in Siria proteggendo Damasco dagli attacchi terroristici di Israele. Oltre alla difesa antiaerea il Venezuela è dotato di caccia F-16 statunitensi e dispone di una abbondante dotazione di batterie missilistiche terra-aria mobili e mezzi blindati.

Si tratta di capire quanto Mosca e Pechino intendano puntare sullo scacchiere latinoamericano, considerando che sebbene nessuna delle due capitali abbia voglia di un confronto militare diretto o per procura, i rischi maggiori sono proprio per gli Stati Uniti in una operazione militare che potrebbe ritorcersi contro. Sarà dunque la fermezza euroasiatica che misurerà gli spazi di mediazione con la Casa Bianca. Senza voler minimamente sottovalutare il livello tecnologico e distruttivo del dispositivo militare statunitense nei Caraibi, un attacco non sarebbe una operazione-lampo.

Per citare i due unici successi militari dal 1945 ad oggi degli USA, non vi riuscirono nemmeno con l’isoletta di Grenada nel 1983, dove 600 operai edili cubani bloccarono rangers e marines per diversi giorni. Né vi riuscirono a Panama, nel 1989, dove 23.000 uomini ebbero bisogno di diversi giorni per aver ragione di un minuscola guardia nazionale messa su alla meno peggio da Noriega. Figurarsi in Venezuela oggi. Quale che sia l’esito delle consultazioni, risulta difficile dunque, in questo quadro, pensare ad una passeggiata statunitense, magari da immortalare sul modello di un video-gioco come quelli trasmessi con il bombardamento dell’Irak.

Anche sotto il profilo del consenso interno, Trump farebbe bene a considerare che il Corona virus porterà negli USA tra 250.000 e 350.000 morti. Oltre al dramma umano, la cui responsabilità ricade su un Presidente ignorante ed un Gabinetto di esaltati a tinte criminali, questo produrrà un rischio di collasso persino per le strutture funerarie, oltre al logico diffondersi di una disperazione sociale. Pensare di poterci allegare anche i morti di una guerra che interessa solo ai petrolieri sarebbe follia umana ed elettorale.

Il tempo per le elezioni di novembre è stretto e votare con una guerra in corso sarebbe esiziale per Trump che aveva vinto promettendo il ritiro dei militari da mezzo mondo e di concentrarsi sull’economia.

Potrebbe dunque profilarsi un accordo sul modello di quello sottoscritto nel 1962 per i missili a Cuba tra Krusciov e Kennedy (che prevedeva la rinuncia di missili russi sull’isola in cambio dell’impegno USA di non attaccarla ndr). Ma Trump non è Kennedy: il presidente democratico venne assassinato a Dallas da un complotto di CIA e terroristi cubano americani, mentre quello attuale ha appaltato proprio alla criminale lobby cubano-americana la politica nella regione. Qualcuno, forse Putin, dovrà quindi spiegargli che il decollo del primo caccia e il lancio del primo missile sarebbero l’inizio di un pantano da dove uscirebbe sconfitto. E sebbene nessun presidente USA abbia mai finito il mandato senza almeno una guerra, nessuno ha mai vinto le elezioni con una guerra persa.

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