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Le minacce della Casa Bianca e del dipartimento di Stato americano non sono alla fine servite a impedire l’approvazione nella giornata di giovedì della nuova legge sulla “sicurezza nazionale” per Hong Kong da parte dell’annuale assemblea legislativa cinese. La decisione presa dal Congresso Popolare era stata anticipata da un annuncio clamoroso a Washington, dove l’amministrazione Trump aveva stabilito che l’ex colonia britannica non dispone ormai più di un livello significativo di autonomia da Pechino. Questa dichiarazione rappresenta una nuova escalation dello scontro tra le prime due potenze del pianeta e apre la strada alla possibile revoca dello status privilegiato assegnato alla città asiatica per oltre due decenni dal governo degli Stati Uniti.

 

Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, mercoledì aveva comunicato al Congresso di Washington  che per il suo governo il provvedimento sulla sicurezza e l’ordine pubblico adottato dal parlamento cinese avrebbe cambiato le relazioni tra Pechino e Hong Kong. La mossa dell’amministrazione Trump fa riferimento a una norma prevista dalla legge bipartisan americana entrata in vigore lo scorso autunno dopo mesi di proteste di piazza a Hong Kong contro una controversa legge sull’estradizione verso la Cina. Il dipartimento di Stato avrebbe cioè dovuto certificare, come ha fatto appunto Pompeo, l’eventuale perdita di autonomia da Pechino.

Una valutazione in questo senso dovrebbe far scattare provvedimenti da parte della Casa Bianca che possono arrivare fino alla cancellazione delle condizioni favorevoli, in ambito commerciale e non solo, applicate a Hong Kong, come previsto da una legge del 1992. Quest’ultima lasciava invariate le relazioni tra la metropoli e gli Stati Uniti anche dopo il passaggio di essa dal Regno Unito alla Cina, avvenuto cinque anni più tardi.

La legge sulla “sicurezza nazionale” rappresenta la risposta della leadership cinese all’instabilità registrata a Hong Kong nei mesi scorsi e implica anche uno scavalcamento dell’assemblea legislativa della città, la quale aveva cercato di approvare una misura simile nel 2003, poi ritirata sull’onda di massicce proteste popolari. Il provvedimento prende di mira atti ritenuti di terrorismo, sedizione e separatismo, rivelando l’estrema apprensione della classe dirigente della madrepatria riguardo alla situazione di Hong Kong.

Pechino intende mettere in chiaro che non saranno più tollerate interferenze esterne in quello che considera esclusivamente un affare domestico. In aggiunta a ciò, gli strumenti legali per reprimere disordini e instabilità rispondono a un timore diffuso tra i vertici della Repubblica Popolare per il possibile propagarsi di proteste e malcontento da Hong Kong al resto della Cina, dove le tensioni sociali restano vive sotto la cenere e minacciano di rialimentarsi a causa delle difficoltà dell’economia provocate dall’emergenza Coronavirus.

Contro la proposta della nuova legge sono scoppiate nei giorni scorsi altre manifestazioni di protesta a Hong Kong, ma, come già accaduto nella fase finale di quelle dello scorso anno, la partecipazione popolare è apparsa relativamente limitata, mentre non pochi sono stati ancora una volta gli episodi di violenza.

La ex colonia britannica continua a essere caratterizzata da una realtà fatta di disuguaglianze sociali enormi, da un costo della vita insostenibile per buona parte della popolazione e da gravissimi problemi abitativi. Lo scorso anno, almeno inizialmente questi temi si erano saldati alla mobilitazione contro Pechino attorno alla questione delle libertà politiche garantite alla città, a cui sono interessate per lo più le classi medio alte. A poco a poco, le proteste hanno tuttavia raccolto sempre meno partecipanti e hanno visto prevalere gruppi organizzati che fanno riferimento o sono appoggiati dai governi occidentali.

La deriva in parte reazionaria della protesta ha assunto spesso toni apertamente anti-cinesi, xenofobi e violenti, risolvendosi in un appello all’intervento di Washington o Londra e per colpire gli interessi di Pechino con sanzioni e provvedimenti simili. Questa involuzione ha senza dubbio contribuito al discredito e alla perdita di interesse, soprattutto tra le classi più disagiate di Hong Kong, per un movimento che vorrebbe essere democratico, favorendo l’iniziativa del governo cinese per mettere fine ai tentativi di destabilizzazione in atto.

Per quanto riguarda le decisioni della Casa Bianca, la stampa americana ha elencato una serie di misure che Trump potrebbe adottare in risposta al giro di vite su Hong Kong. La città potrebbe essere assoggettata ad esempio ai dazi doganali sulle importazioni applicati alla Cina e da cui è rimasta finora esente. Altri provvedimenti potrebbero essere diretti invece contro funzionari e leader politici cinesi coinvolti nella stesura e nell’applicazione della legge sulla sicurezza. In linea generale, l’obiettivo potrebbe essere quello di ridurre il ruolo di “hub” finanziario globale di Hong Kong, anche se le conseguenze rischiano di risultare pesanti per gli stessi interessi delle compagnie americane che vi operano e godono del particolare status della metropoli.

La Camera di Commercio USA ha infatti già invitato la Casa Bianca a evitare la mano pesante, per privilegiare “il mantenimento di un rapporto positivo e costruttivo tra Stati Uniti e Hong Kong”. Molti commentatori in questi giorni hanno perciò ipotizzato un approccio non troppo pesante da parte di Trump e magari per gradi, come accaduto nel quadro della guerra commerciale, con la speranza di ammorbidire le posizioni di Pechino.

Resta comunque il fatto che la pretesa americana di avere un qualche interesse genuino nella salvaguardia dei diritti democratici della popolazione di Hong Kong è semplicemente assurda. Il governo di Washington non ha a cuore gli abitanti della ex colonia britannica più di quelli di paesi come Afghanistan, Iraq, Siria o Libia, le cui vite sono state sconvolte se non distrutte negli ultimi due decenni in nome delle campagne di esportazione della democrazia a stelle e strisce.

Va ricordato inoltre che, almeno formalmente, l’adozione da parte del governo centrale di leggi relative alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico è una facoltà prevista dalla cosiddetta “legge fondamentale” della regione amministrativa speciale di Hong Kong, cioè la sorta di Costituzione emanata in seguito al trattato sino-britannico che aveva anticipato la fine dell’era coloniale nel 1997.

Le ragioni americane sono evidentemente tutte politiche e vanno ricondotte all’offensiva orchestrata da Washington nel tentativo di limitare il consolidamento della Cina come rivale economico, militare e strategico degli Stati Uniti su scala planetaria. La campagna USA, inaugurata dall’amministrazione Obama e intensificata tra alti e bassi dall’attuale inquilino della Casa Bianca, rappresenta una realtà ormai in svariati ambiti e ha da tempo convinto le autorità cinesi della sostanziale inevitabilità di una nuova Guerra Fredda.

Le pressioni su Hong Kong da parte di Trump sono particolarmente gravi in quanto vanno a toccare la questione della sovranità cinese, ritenuta di importanza vitale da Pechino, già messa in discussione da Washington in merito a Taiwan e al Mar Cinese Meridionale. Le ultime settimane hanno visto ad ogni modo un’accelerazione a tutto campo delle provocazioni contro la Cina, evidenti in particolare dalle recenti ulteriori restrizioni decise contro le attività di Huawei e dalle insistenti accuse senza fondamento sulle origini e la gestione dell’epidemia di Coronavirus.

Il logico sbocco della crisi nelle relazioni delle due potenze è l’aumento vertiginoso del rischio di un conflitto armato nel prossimo futuro, già prospettato, da parte americana, dal riassetto della propria macchina da guerra verso il continente asiatico e, per quanto riguarda la Cina, dal moltiplicarsi negli ambienti di potere degli appelli a un impulso alla spesa militare, in modo da colmare al più presto il divario che ancora separa le potenzialità belliche di Pechino da quelle degli Stati Uniti.