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Dopo la provocazione del presidente Trump a Washington, dove è apparso in pubblico con una bibbia in mano, le proteste in corso negli Stati Uniti sono proseguite in maniera quasi del tutto pacifica. L’assenza di quelli che la stampa ufficiale ha definito “saccheggi” e “distruzione” in centinaia di città USA ha confermato il carattere autentico delle manifestazioni scaturite dall’assassinio di George Floyd, rendendo ancora più grave e inquietante la risposta delle autorità locali e il tentativo di mobilitazione dell’esercito con compiti di repressione da parte dell’inquilino della Casa Bianca.

 

Quasi ovunque, decine di migliaia di persone sono tornate nuovamente nelle strade nonostante il coprifuoco deciso da sindaci e governatori. Nella capitale americana si sono verificate le situazioni probabilmente più significative e dalla maggiore forza simbolica. Martedì, ad esempio, più di mille manifestanti si sono assiepati dietro una rete metallica eretta appositamente a difesa della Casa Bianca, con gli agenti di polizia pronti a intervenire dalla parte opposta della barricata. Le minacce e il massiccio dispiegamento di forze non hanno scoraggiato i dimostranti, secondo il New York Times in numero “almeno doppio” rispetto a quelli che avevano partecipato il giorno precedente.

Sempre a Washington, l’amministrazione Trump ha ordinato la militarizzazione delle strade. Poco dopo l’entrata in vigore del coprifuoco alle 19 di martedì, decine di veicoli delle forze armate sono entrati in città, mostrando ai suoi abitanti immagini che sembravano più adatte a paesi occupati come Afghanistan e Iraq. Il ricorso all’esercito, ufficialmente bandito sul suolo domestico con compiti di polizia, testimonia a sufficienza quali siano le intenzioni della Casa Bianca nel far fronte alle proteste di questi giorni.

Il soffocamento della rivolta e l’istigazione delle forze ultra-reazionarie nel paese sono i due punti cardine della strategia difensiva di Trump in questo frangente. Lo stesso presidente ha prima esortato i governatori a utilizzare l’esercito, per poi minacciare di inviare le forze armate di sua iniziativa per ristabilire l’ordine. Queste posizioni estreme sono state in larga misura respinte sia dalle autorità locali sia dai leader democratici e buona parte di quelli repubblicani, così come dai vertici militari.

Mercoledì, il segretario alla Difesa Mark Esper ha smentito clamorosamente Trump, sostenendo che la situazione attuale non giustifica l’impiego di militari contro i dimostranti. In precedenza, l’ex capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, era a sua volta intervenuto pubblicamente per accusare di volere strumentalizzare i militari per “scopi politici”. Le preoccupazioni sono evidenti negli ambienti di potere americani, soprattutto quelli da sempre sospettosi di Trump, non tanto per la deriva autoritaria in atto o per il profilarsi di un brutale soffocamento delle proteste, quanto per il timore che un intervento dell’esercito aggravi ancora di più le tensioni e rompa definitivamente ciò che resta dei legami tra la gran parte della popolazione USA e le sue istituzioni ultra-screditate.

A coordinare le manovre del governo federale sembra essere il ministro della Giustizia o Procuratore Generale degli Stati Uniti, William Barr, le cui attitudini anti-democratiche sono ben note da tempo. Quest’ultimo ha ordinato personalmente nella giornata di lunedì lo sgombero da manifestanti pacifici di Lafayette Park, vicino alla Casa Bianca, per permettere a Trump di attuare la sua messinscena e di recarsi in una vicina chiesa dove ha improvvisato un evento pubblico diretto in primo luogo ai suoi sostenitori di estrema destra.

Nella sola Washington, sarebbero già dispiegati 1.600 soldati per quella che il Pentagono ha definito una “misura di pianificazione precauzionale”. Questo dato contribuisce a legittimare l’ipotesi che Trump e i suoi più stretti collaboratori stiano cercando quanto meno di sondare il terreno per introdurre misure autoritarie per normalizzare lo stato di emergenza negli Stati Uniti, in modo da rafforzare ancora di più i poteri dell’esecutivo.

Per fare ciò, la Casa Bianca si riferisce in maniera indiretta a una legge del 1807, nota come “Insurrection Act”, che in determinate circostanze permette al presidente di ordinare l’impiego dell’esercito federale sul territorio americano con compiti di ordine pubblico. A livello generale, questa misura estrema è severamente limitata, per non dire vietata, dalla Costituzione americana e dal “Posse Comitatus Act” del 1878.

L’interpretazione di Trump e del suo ministro della Giustizia è chiaramente una forzatura, come hanno spiegato quasi tutti i giuristi intervenuti sui media americani in questi giorni. Ad esempio, la legge del 1807 potrebbe essere invocata se le autorità degli stati interessati dalle proteste dovessero rifiutarsi di applicare le norme federali relative all’ordine pubblico. Ciò non sta evidentemente accadendo, come dimostra anche l’utilizzo della Guardia Nazionale in molti stati e le violenze delle forze di polizia locale documentate nei giorni scorsi.

Soprattutto, l’evolversi in maniera pacifica di manifestazioni che trascendono ormai i limiti delle sole rivendicazioni razziali non giustifica in nessun modo l’adozione di misure draconiane. La determinazione di Trump trova tuttavia un qualche supporto anche nei precedenti storici. Il ricorso alle forze armate non è infatti una novità per la classe dirigente americana, pronta a fare carta straccia dei diritti democratici e costituzionali quando l’ordine e la stabilità del sistema sono messi in pericolo.

Ciò è accaduto, tra l’altro, per soffocare la rivolta di Los Angeles nel 1992 dopo che quattro agenti di polizia bianchi vennero prosciolti per il pestaggio dell’afro-americano Rodney King. Significativamente, l’Insurrection Act forniva la base legale anche per reprimere scioperi e mobilitazioni operaie tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX.

Va ricordato, a proposito delle tendenze sempre più marcatamente autoritarie dell’amministrazione Trump, che l’esplosione della rivolta in tutto il paese, dopo l’assassinio per mano della polizia di Minneapolis del 46enne afro-americano George Floyd, si colloca in un frangente critico per la tenuta del capitalismo americano. L’emergenza Coronavirus, la gestione disastrosa della crisi sanitaria e il tracollo dell’economia che ne è seguito hanno profondamente destabilizzato un governo già scosso dall’intensificarsi del conflitto sociale sul fronte domestico e dall’aggravarsi delle rivalità internazionali.

In questo quadro, Trump ha moltiplicato gli appelli all’estrema destra americana, spesso con propositi nemmeno troppo velatamente golpisti, fino a ipotizzare un possibile rinvio o addirittura la cancellazione delle elezioni del prossimo novembre, con la scusa dei rischi derivanti dall’epidemia di COVID-19.

Le dinamiche innescate dall’ennesimo episodio di brutalità della polizia USA, ingigantite poi dalla crisi sociale che attraversa questo paese, non sono ad ogni modo un’esclusiva americana. La solidarietà ai manifestanti d’oltreoceano è infatti arrivata ben presto da centinaia di migliaia di persone in molti paesi di tutti i continenti, motivati, come ad esempio in Francia, da casi di violenza delle forze dell’ordine più o meno recenti o, più frequentemente, dalla condivisione di condizioni di vita sempre più precarie.

Le speranze di cambiamento di quanti continuano a scendere nelle strade in questi giorni non possono comunque essere affidate alle forze politiche pseudo-progressiste, negli Stati Uniti come altrove. Le critiche del Partito Democratico americano all’atteggiamento di Trump sono limitate e di natura per lo più tattica, volte cioè quasi esclusivamente a favorire la candidatura di Joe Biden.

Se messe di fronte a una scelta nel caso di una radicalizzazione della protesta, è fuori discussione che queste forze finiranno per scegliere anch’esse la repressione, pur di evitare lo scardinamento del sistema oppressivo contro cui, da oltre una settimana, la parte più sana dell’America sta cercando di combattere.