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A oltre cinque anni dall’inizio dell’aggressione dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo cruciale nel conflitto che è diventato da tempo il più grave disastro umanitario attualmente in corso nel pianeta. Dal 2015, entrambe le amministrazioni succedutesi a Washington hanno cercato e ostentato motivazioni pseudo-legali per giustificare l’appoggio ai regimi direttamente responsabili del massacro. Dietro le quinte, però, si stavano svolgendo accese discussioni tra i consiglieri legali del dipartimento di Stato e i loro superiori, tutti consapevoli di essere in presenza di azioni che avrebbero potuto portare ad accuse per crimini di guerra anche ai più alti livelli del governo americano.

 

Un riepilogo dettagliato dei tentativi di scavalcare il diritto internazionale e la stessa legge americana per rifornire di armamenti i sauditi e i loro alleati è stato pubblicato questa settimana dal New York Times. Gli autori del lungo articolo si sono basati su documenti e interviste concesse da anonimi funzionari a conoscenza diretta dei fatti. Come accade quasi sempre con simili “esclusive”, è probabile che le fonti governative si siano attivate anche in questo caso per colpire il presidente Trump a poche settimane dalle elezioni.

Ad ogni modo, il quadro che ne esce è quello di un’amministrazione repubblicana decisa a non fermare il flusso di armi verso le monarchie del Golfo Persico, malgrado gli ordigni di fabbricazione USA fossero stati utilizzati per compiere una lunghissima serie di stragi di civili nello Yemen. Quando, poi, gli uffici legali avevano redatto pareri che confermavano la natura criminale del conflitto e le responsabilità di quanti avevano autorizzato le vendite, dai piani alti del dipartimento di Stato, così come dal Pentagono e dalla Casa Bianca, erano partite iniziative per liquidare qualsiasi possibile ostacolo.

La gravità della situazione e le implicazioni per i responsabili di queste decisioni sono tali che il Times ha concluso affermando che “nessun episodio della storia americana recente è paragonabile al caso dello Yemen”, nel quale cioè gli Stati Uniti hanno “garantito supporto materiale per oltre cinque anni” a paesi che “hanno causato l’uccisione ininterrotta di civili”. L’avvertimento arriva a pochi giorni dalla consegna da parte degli investigatori ONU al Consiglio di Sicurezza della loro indagine sulle atrocità commesse nello Yemen. In base alle prove raccolte, il Tribunale Penale Internazionale potrebbe aprire una procedura per crimini di guerra anche contro cittadini americani.

I dubbi sulla complicità americana nei crimini sauditi erano emersi precocemente all’interno del dipartimento di Stato. Nei primi mesi del conflitto, scatenato nel marzo 2015, erano stati documentati numerosi casi di attacchi contro edifici civili con bombe fabbricate negli Stati Uniti. L’amministrazione Obama aveva solo in seguito affidato a un legale del dipartimento di Stato l’incarico di esaminare i risvolti della partnership con Arabia Saudita ed Emirati Arabi, in modo da capire se i funzionari che avevano approvato le forniture di armi avrebbero potuto incorrere in guai con la giustizia.

L’esito avrebbe lasciato pochi dubbi, anche se senza conseguenze sostanziali. Il documento legale stilato nel 2016 confermava infatti che i responsabili della gestione del file Yemen potevano finire sotto accusa per crimini di guerra, incluso il segretario di Stato. I superiori dell’autore del memorandum decisero tuttavia di non informare il capo della diplomazia americana, in quel momento John Kerry, ma la Casa Bianca avviò comunque una revisione della propria posizione riguardo allo Yemen. In seguito, sarebbe stata anche sospesa la vendita di una parte delle armi destinate a Riyadh.

Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, nella primavera del 2017 il dipartimento di Stato si adoperò per sbloccare le vendite di armi. I funzionari dell’ufficio incaricato di autorizzare le forniture volevano però rassicurazioni sul fatto che le direttive del presidente non avrebbero comportato alcun rischio legale. Ciò che ne seguì fu la richiesta, fatta al principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, di impegnarsi a “mettere fine ai bombardamenti contro i civili yemeniti”. A livello formale, fu prodotto un documento che stabiliva nuove linee guida per i governi di Arabia e Stati Uniti, da rispettare per limitare le stragi di “donne e bambini”.

Le condizioni sottoscritte vennero ben presto ridimensionate e, per finalizzare i nuovi contratti di fornitura di armi in tempo per la visita di Trump a Riyadh nel mese di maggio, si sarebbe trovato un accordo su una lista di appena cinque “garanzie” offerte dai sauditi, tra cui la creazione di un programma di “addestramento” per le forze armate del regno tenuto dai militari americani.

Con il cambio al vertice del dipartimento di Stato nella primavera del 2018 – da Rex Tillerson a Mike Pompeo – i limiti alla vendita di armi da destinare all’aggressione contro lo Yemen vennero sempre meno. Nell’agosto dello stesso anno, i caccia della coalizione guidata dai sauditi sganciarono una bomba americana su uno scuolabus, uccidendo 44 bambini. Il mese successivo, Pompeo certificò comunque al Congresso che Riyadh aveva fatto progressi nel ridurre al minimo le vittime civili, nonostante anche rapporti interni al dipartimento di Stato avessero rilevato il contrario.

La certificazione di Pompeo era stata scoraggiata dai consiglieri del suo dipartimento, sempre più allarmati dalle implicazioni legali di questo comportamento. A muoversi sarebbe stato anche il Congresso, cercando di fermare le vendite di armi autorizzate dalla Casa Bianca, principalmente per il danno d’immagine derivante dalla partecipazione a un conflitto con un bilancio così grave di vittime civili.

Né le continue stragi né i rischi legali fermarono però l’amministrazione Trump. Anzi, la Casa Bianca e il dipartimento di Stato decisero di accelerare e ricorrere a una misura straordinaria e senza nessuna giustificazione legale. Pompeo, cioè, nel maggio del 2019 sbloccò una tranche da quasi 2 miliardi di dollari in armi a favore dell’Arabia Saudita sulla base di una ridicola emergenza rappresentata dal comportamento dell’Iran. Come se non bastasse, il dipartimento di Stato si rifiutò anche di dare seguito a una direttiva che imponeva di rivedere la strategia per la riduzione delle vittime civili nello Yemen, emessa poco tempo prima dal segretario pro tempore insediatosi subito dopo il licenziamento di Tillerson.

Questa nuova iniziativa di Pompeo avrebbe innescato un’indagine dell’ispettore generale del dipartimento di Stato, esposto in seguito a pressioni per lasciar cadere la propria inchiesta interna. Il rapporto finale avrebbe ancora una volta documentato le implicazioni legali delle decisioni legate alla partecipazione alla guerra e questo stesso documento, estremamente critico del dipartimento di Stato e dei funzionari di nomina politica, secondo il New York Times potrebbe rappresentare un’ulteriore prova a carico nell’eventualità di un futuro processo per crimini di guerra.

In definitiva, i vertici del governo americano – sia durante la presidenza Obama sia quella attuale – hanno continuato a vendere armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi da usare nello Yemen, contravvenendo ai pareri degli uffici legali del dipartimento di Stato che avevano concluso, senza mezze misure, come i responsabili di questa decisione fossero esposti al rischio di denunce per crimini di guerra. La decisione di proseguire sulla strada imboccata nel 2015 da Obama è stata presa deliberatamente da entrambe le amministrazioni in sostanza per due ragioni: riempire le casse dei fornitori di armi americane e garantirsi un esito favorevole alla crisi nello Yemen, vale a dire evitare che questo paese entri nell’orbita strategica dell’Iran con un successo dei “ribelli” sciiti Houthi.

Nel più povero dei paesi arabi devastato dalla guerra, intanto, il disastro umanitario non conosce soste. Le Nazioni Unite proprio questa settimana hanno reso noto come agosto sia stato il mese più letale del 2020 per i civili yemeniti. Un’ulteriore dimostrazione della gravità dei crimini, totalmente impuniti, dell’Arabia Saudita e dei loro alleati, Stati Uniti compresi, è poi arrivata dall’intervento di martedì al Consiglio di Sicurezza del capo dell’ufficio di coordinamento per gli Affari Umanitari dell’ONU, Mark Lowcock.

I dati presentati indicano come i maggiori responsabili della guerra nello Yemen – Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait – non abbiano ancora versato un solo dollaro al fondo del 2020 destinato ad alleviare la crisi alimentare e sanitaria nel paese che essi stessi stanno distruggendo. Nel complesso, l’ONU ha raccolto finora appena il 30% dei fondi promessi dai potenziali donatori e questa situazione determinerà una carenza o totale assenza di aiuti in vari ambiti per circa 9 milioni di yemeniti.

Mentre Emirati e Kuwait non avevano preso impegni specifici, dai sauditi ci si aspettavano 500 milioni di dollari. Se il denaro non dovesse arrivare, ha spiegato Lowcock, “per moltissime famiglie dello Yemen si tratterebbe di una vera e propria sentenza di morte”. Secondo i dati ufficiali, la guerra ha causato finora più di 100 mila morti, mentre oltre tre milioni sono i profughi interni. L’ONU stima inoltre che 24 milioni di yemeniti, ovvero l’80% della popolazione del paese, necessità di una qualche forma di assistenza o di protezione.