L’ondata democratica che la maggior parte dei media e dei sondaggi ufficiali negli Stati Uniti aveva previsto nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali non solo non si è presentata nella giornata di martedì, ma l’ex vice-presidente Joe Biden rischia di incassare una clamorosa sconfitta e di consegnare un inquietante secondo mandato a Donald Trump. Tutto dipenderà da una manciata di stati ex industriali del “Midwest”, dove il presidente repubblicano ha al momento un certo vantaggio che potrebbe però svanire una volta contati i moltissimi voti arrivati per posta. Nonostante il tentativo di Trump di dichiararsi vincitore già nella mattinata di mercoledì, il risultato finale potrebbe essere noto solo tra svariati giorni, sempre che a decidere il nome del prossimo presidente non siano, come nel 2000, i tribunali americani.

 

Che Biden e i democratici non avrebbero avuto una nottata serena lo si era capito già poco dopo la mezzanotte negli USA, quando due degli stati in teoria in bilico e vinti da Trump nel 2016 – Ohio e Iowa – sono finiti precocemente nella colonna del presidente. Poche ore dopo è sparita anche l’illusione di vincere in Florida e in Texas, dove pure la campagna di Biden aveva investito non poco. Il primo di questi due stati era un obiettivo particolarmente ambito dai democratici, perché i suoi 29 “voti elettorali”, se conquistati da Biden, avrebbero ristretto in modo drastico il percorso verso il successo di Trump. L’ex vice di Obama ha invece fallito soprattutto nell’intercettare il voto “latinos”, qui in buona parte allineato su posizioni ultra-conservatrici e anti-comuniste. Nella popolosa e determinante contea di Miami-Dade, infatti, Trump ha incassato 526 mila voti contro i 334 mila di quattro anni fa.

Gli stati per i quali è possibile per ora stabilire il vincitore o fornire una proiezione solida sono andati nella stessa direzione del 2016, con l’eccezione importante dell’Arizona. Ad assegnare per prima a Biden questo stato del sud-ovest è stata addirittura Fox News nelle prime ore di mercoledì e, se il risultato fosse confermato, gli aprirebbe più di una strada verso la Casa Bianca, anche ad esempio con una sconfitta in uno degli stati più combattuti, cioè la Pennsylvania.

Gli stati che in definitiva potrebbero ancora andare a uno o all’altro dei candidati, con diversi gradi di probabilità, sono Wisconsin, North Carolina, Georgia, Michigan e, appunto, Pennsylvania. Solo nel primo è in vantaggio Biden, ma in tutti e cinque restano da processare le schede elettorali di quanti hanno votato per posta. Visti i rischi della pandemia, quest’anno circa 100 milioni di americani hanno votato in questo modo o, laddove era possibile, presentandosi ai seggi di persona nei giorni precedenti l’election day.

Il voto postale ha creato ritardi e innescato complesse cause legali, quasi tutte presentate dal Partito Repubblicano nel tentativo di escludere il numero più alto possibile di schede dal conteggio finale. Gli elettori registrati come democratici sono infatti quelli che hanno maggiormente fatto ricorso a queste modalità per esprimere la loro preferenza. Se gli equilibri in North Carolina non dovrebbero cambiare, diverso è il discorso per la Georgia e soprattutto per gli altri tre stati della cosiddetta “Rust Belt”. Su di essi, Biden e i democratici puntano per ribaltare i risultati provvisori una volta che saranno completate le operazioni di conteggio dei voti “a distanza”.

Michigan, Wisconsin e Pennsylvania potrebbero anche diventare la Florida del 2000, cioè finire in una disputa sul riconteggio che Trump intendeva usare fin dall’inizio come strumento per restare alla Casa Bianca. Già nei giorni scorsi c’erano state sentenze sui tempi di accettazione e conteggio dei voti per posta. In Pennsylvania sarà ad esempio possibile omologare le schede ricevute fino a tre giorni dopo il 3 novembre, a patto che siano state inviate entro questa data. Sulla questione si era espressa la Corte Suprema, ma alcuni dei giudici conservatori, con un chiaro segnale utile alle manovre di Trump, hanno lasciato aperta l’ipotesi di un possibile nuovo intervento dello stesso tribunale dopo la chiusura dei seggi.

La controversia rischia di gettare l’intero processo elettorale nel caos, soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente nella mattinata di mercoledì. Come previsto, Trump si è di fatto proclamato vincitore e ha definito il conteggio prolungato negli stati in bilico un “imbroglio ai danni degli americani”, sia pure chiedendo esattamente questo in Arizona, dove Biden sembra essersi assicurato i “voti elettorali” in palio. In modo ancora più preoccupante, Trump ha poi minacciato un ricorso alla Corte Suprema per “fermare tutti i conteggi”, esattamente come accadde in Florida vent’anni fa. In questo senso, la nomina della nuova giudice della Corte Suprema, l’ultra-reazionaria Amy Coney Barrett, poco prima delle elezioni è stato uno degli elementi decisivi della strategia del presidente.

Le affermazioni di Trump possono essere un tentativo di sondare il terreno tra la popolazione e i poteri forti americani per passare eventualmente all’azione se la bilancia dovesse spostarsi a favore di Biden nelle prossime ore. Oppure è del tutto plausibile pensare a un disegno già in atto per pilotare a proprio favore l’esito del voto. In questo caso, sarà da osservare attentamente la possibile mobilitazione di milizie armate di estrema destra, a cui Trump ha fatto più volte appello in campagna elettorale, e la collaborazione delle forze di polizia, della Guardia Nazionale e delle autorità politiche locali repubblicane.

Il pericolo di un colpo di mano di Trump o di una manovra pseudo-legale con l’aiuto dei tribunali è dunque nell’ordine delle cose e, proprio come nel 2000, difficilmente gli americani potranno contare sulla resistenza dei democratici. Tutto quello che Biden ha fatto dopo la chiusura delle urne è stato esprimere una certa fiducia sulla sua vittoria e chiedere “pazienza” ai suoi sostenitori.

D’altro canto, è interamente possibile anche un successo legittimo di Trump, alla luce del sostanziale flop democratico, quanto meno rispetto alle previsioni. Il solo fatto che le presidenziali siano state comunque così equilibrate è di per sé un atto d’accusa devastante per il Partito Democratico. In un anno segnato dalla gestione catastrofica di un’epidemia che ha fatto 9 milioni di contagi e più di 230 mila morti, in cui l’economia è crollata, la legalità è stata calpestata ripetutamente, sono state mobilitate forze fascistoidi e il rischio di un conflitto nucleare è aumentato vertiginosamente, i democratici non hanno saputo che presentare un candidato ultra-compromesso con le ultra-corrotte strutture di potere di Washington, oltretutto con uno stato di salute mentale a dir poco dubbio.

Biden e il Partito Democratico non sono stati minimamente in grado in campagna elettorale di offrire un piano di salvataggio del paese veramente progressista, basato in primo luogo sulla lotta efficace al Coronavirus e alla creazione di un sistema sanitario universale pubblico. La corsa alla presidenza è stata impostata invece e in primo luogo sul consueto appello all’identità razziale e di genere, caro alle classi medio-alte, e sull’isteria anti-russa, accusando Putin e il suo presunto burattino alla Casa Bianca praticamente per tutti i problemi che affliggono l’America.

Molto poco ha fatto Biden anche per riconquistare ai democratici ampie fasce dell’elettorato maggiormente penalizzato dalla crisi economica e dalla de-industrializzazione proprio in quel “Midwest” da cui arriverà il verdetto definitivo del voto. Nel 2016, lo scostamento delle intenzioni di voto tra i lavoratori di Ohio, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania fu decisivo per la sconfitta di Hillary Clinton e potrebbe determinare anche oggi il destino dell’ex vice-presidente.

Le contee operaie devastate dalla chiusura di fabbriche storiche soprattutto del settore automobilistico hanno spesso votato anche in questa occasione a favore di Trump mentre, su un piano più generale, il presidente repubblicano ha migliorato la sua quota di consensi quasi in tutte le categorie di elettori. Gli exit poll dell’istituto di ricerca Edison hanno mostrato infatti che Trump ha perso terreno solo tra i maschi bianchi (-5%) su scala nazionale, ma ha fatto segnare progressi tra le donne bianche (+2%), gli uomini e le donne di colore (+4%) e di origine ispanica (+3%).

La mancata “ondata blu” ha avuto riflessi anche sull’altra competizione più importante dell’election day 2020, quella per il Senato di Washington. In gioco c’era un terzo dei seggi e i democratici puntavano a riconquistare la maggioranza, oggi in mano ai repubblicani (53-47). Il Partito Democratico, oltre a conservare quelli già nelle proprie mani, dovrebbe aggiudicarsi 3 seggi attualmente occupati da senatori repubblicani oppure 4 se Trump dovesse essere confermato alla Casa Bianca. Al momento il guadagno netto è di appena un seggio, ma alcune sfide restano in bilico, come per i due seggi della Georgia. Comunque vada, anche in questo caso la dirompente avanzata democratica non sembra essersi materializzata.

Resta ora da vedere fino a che punto uno scontro accesissimo sui risultati finali rimarrà nell’ambito della legalità o se, come in molti temono, finirà per sfociare in violenze e addirittura nell’implementazione di trame eversive. Lo spettacolo delle attività commerciali che in molte città hanno costruito barricate difensive o della Casa Bianca isolata da un vero e proprio muro per tenere lontani possibili dimostranti è più da paese del terzo mondo e non sembra preannunciare un epilogo pacifico. La crisi terminale della democrazia americana resta così il dato più evidente e clamoroso di una stagione elettorale che è il prodotto di un sistema oligarchico e corrotto, capace di rigurgitare sulla società candidati alla massima carica del paese come Joe Biden e Donald Trump.

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