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Le indagini del Congresso americano sull’assalto dei seguaci di Trump a Capitol Hill il 6 gennaio scorso stanno provocando le prime scintille tra i membri della speciale commissione incaricata dei lavori e lo stesso ex presidente repubblicano e i suoi collaboratori. Nei giorni scorsi sono stati emessi alcuni ordini di comparizione nei confronti di personalità di spicco dell’ex amministrazione repubblicana, chiamati a testimoniare davanti alla commissione della Camera dei Rappresentanti, assieme a richieste di consegna di documenti utili all’indagine.

Trump e il suo ex consigliere Stephen Bannon, oggetto finora del provvedimento più severo, hanno però risposto con fermi rifiuti e cause legali, che potrebbero ritardare il procedimento almeno fino a dopo le elezioni di metà mandato del novembre 2022.

Martedì, la speciale commissione della Camera ha approvato all’unanimità una risoluzione che chiede al dipartimento di Giustizia di incriminare il neo-fascista Bannon per oltraggio al Congresso, a causa appunto del suo rifiuto a deporre sui fatti del 6 gennaio. Sulla questione si esprimerà giovedì l’aula e, dopo il voto molto probabilmente favorevole, spetterà al dipartimento di Giustizia decidere il da farsi, cioè se istituire o meno un “grand jury” per accusare formalmente Bannon. In caso di condanna, le pene prevedono ammende fino a 100 mila dollari e la reclusione fino a dodici mesi. Anche se il presidente Biden ha recentemente espresso il proprio appoggio alla decisione della commissione, non è scontato che il suo ministro della Giustizia, Merrick Garland, decida di procedere in questa direzione.

Bannon dovrebbe consegnare una lunga lista di documenti che dimostrerebbero come fosse a conoscenza in anticipo dell’attacco all’edificio che ospita il Congresso grazie ai contatti mantenuti con membri dell’amministrazione Trump anche dopo il suo licenziamento da consigliere del presidente nell’agosto del 2017. Il suo ruolo negli eventi del 6 gennaio, di fatto un tentativo di golpe per fermare la certificazione della vittoria di Biden nelle presidenziali, potrebbe anzi essere quello di un vero e proprio organizzatore. Il giorno precedente, ad esempio, Bannon aveva partecipato a una riunione, verosimilmente per pianificare le operazioni, al Willard Hotel di Washington con alcuni uomini molto vicini a Trump, tra cui Rudy Giuliani e Roger Stone.

Secondo la deputata repubblicana Liz Cheney, membro della commissione di indagine, Bannon avrebbe “avuto un ruolo importante nella stesura dei piani [di attacco contro il Campidoglio]”. La stessa figlia dell’ex vice-presidente Dick Cheney ha poi spiegato l’altra ragione dell’interesse per Bannon, cioè la conoscenza diretta delle manovre “del presidente per convincere milioni di americani del carattere fraudolento delle elezioni” vinte da Biden. La tesi della “elezione rubata” era stata subito propagandata dalla Casa Bianca dopo il voto di novembre e avrebbe in seguito fornito la giustificazione principale per l’assalto del 6 gennaio.

Nelle 26 pagine della risoluzione contro Bannon della commissione della Camera di Washington sono inclusi i messaggi da lui scambiati con membri di gruppi di estrema destra che avrebbero poi partecipato all’assalto e trascrizioni di podcast registrati dall’ex consigliere di Trump. In uno di questi ultimi, datato 5 gennaio, Bannon aveva anticipato il caos che avrebbe avuto luogo a Washington e garantito che l’azione in programma sarebbe stata “straordinariamente diversa” dalle proteste e dalle manifestazioni tenute fino a quel momento.

I legali di Bannon hanno dunque respinto le richieste della commissione del Congresso, sostenendo che il loro assistito non può collaborare perché impedito dall’invocazione da parte di Trump del cosiddetto “privilegio presidenziale”. Questa dottrina dalle incerte fondamenta legali prevede che il presidente degli Stati Uniti possa bloccare la pubblicazione di documenti, messaggi o trascrizioni di conversazioni che ha intrattenuto nello svolgimento delle proprie funzioni. Trump si era infatti auto-assegnato questa prerogativa per scoraggiare chiunque avesse fatto parte della sua amministrazione dal deporre davanti alla commissione sui fatti del 6 gennaio.

Il riferimento al “privilegio presidenziale” è tuttavia problematico. Non esistono in merito sentenze acquisite dei tribunali americani e la pratica comune prevede alcuni punti fermi che escluderebbero i casi di Trump e di Bannon. Ad esempio, questa dottrina viene generalmente invocata dal presidente in carica e non da un ex presidente. Biden, da parte sua, ha già escluso di bloccare i documenti riguardanti il suo predecessore. Inoltre, le interazioni presumibilmente coperte dal “privilegio presidenziale” riguardano il presidente e il suo staff o membri del governo, mentre Bannon non ha ricoperto incarichi ufficiali dall’estate del 2017. Ancora, in larga misura il materiale richiesto a Bannon non riguarda le sue comunicazioni con la Casa Bianca ma con altri individui coinvolti negli eventi del 6 gennaio.

Nella situazione di Bannon ci sono anche altri ex funzionari vicini a Trump, come il suo ex capo di gabinetto Mark Meadows o l’ex segretario alla Difesa Christopher Miller. Tutti hanno disertato la convocazione al Congresso, ma per nessuno di loro, a differenza di Bannon, la commissione ha provveduto a raccomandare una incriminazione formale. Non c’è dubbio che i leader democratici intendano muoversi con cautela, nonostante le loro denunce pubbliche disegnino talvolta efficacemente le implicazioni dell’indagine sul tentato golpe di estrema destra.

Il presidente della speciale commissione, il deputato democratico del Mississippi Bennie Thompson, ha ad esempio avvertito qualche giorno fa che “lo stato di diritto resta sotto attacco” negli Stati Uniti e che, “se nessuno pagherà per gli abusi [del 6 gennaio 2021] e se ci saranno regole diverse a seconda dell’importanza delle persone [coinvolte], allora la nostra democrazia è in guai seri”. Al di là della retorica e delle apparenti minacce ai membri dell’amministrazione Trump, i provvedimenti concreti adottati finora hanno riguardato più che altro militanti che hanno partecipato all’assalto, molti dei quali colpiti da ordini di arresto o già sotto processo.

Nella realtà dei fatti, il comportamento della commissione e del Partito Democratico in generale ha piuttosto incoraggiato la resistenza di Trump e della sua cerchia. A conferma di ciò, l’ex presidente nella giornata di lunedì ha presentato una denuncia nei confronti del numero uno della commissione del Congresso e del direttore dell’Archivio Nazionale, responsabile dei documenti presidenziali, per bloccare la pubblicazione di informazioni relative a un’indagine ritenuta “illegittima”.

Un portavoce di Trump, nell’annunciare la querela, ha fatto ricorso a un linguaggio apertamente fascista, parlando di un tentativo di “ridurre al silenzio e distruggere i patrioti americani” attraverso “metodi comunisti”. Toni simili sono peraltro puntualmente usati anche da Trump nel corso dei suoi comizi e indicano un chiaro tentativo di sfruttare l’indagine sui fatti del 6 gennaio per alimentare i sentimenti ultra-reazionari tra la sua base elettorale.

Non solo, la possibilità offerta all’ex presidente di continuare a fare politica, senza rendere conto delle sue responsabilità nel golpe fallito di gennaio, ha fatto in modo che l’ascendente di Trump sul Partito Repubblicano sia quasi assoluto. Allo stato attuale delle cose, infatti, Trump sembra il candidato favorito alla nomination repubblicana per le elezioni del 2024, nelle quali, è facile prevederlo, il clima generale sarà caratterizzato da un ulteriore drammatico spostamento a destra del baricentro politico americano.